martedì 30 marzo 2010

RIDOTTI IN POLVERINI

Ieri sera mi sono addormentato con il telecomando in mano mentre in sottofondo il susseguirsi forsennato delle percentuali di spoglio dei voti mi faceva da ninna nanna.
Non so se il cervello avesse comunque registrato l’esito finale del testa a testa tra Polverini e Bonino, ma per buona parte della notte continuavo a sognare che la candidata di sinistra fosse stata alla fine battuta dalla sua concorrente.
Continuavo a svegliarmi cercando di capire se fossero sogni o realtà (questo la dice lunga sul mio stato di stress se, anche solo per una notte, ho sostituito una coppia di donne alle solite orge di maschi). Stanco del dubbio, mi alzo e mi connetto a Repubblica.it.
Non si trattava di un incubo. La Polverini ha vinto e anche con un margine cospicuo.
Non ne so molto di scorpori, di percentuali di votanti e di liste presidenziali e mi trovo molto più a mio agio con il cast di Glii ma sono comunque amareggiato dal risultato della Sinistra, non tanto perché credessi nella forza delle sue proposte politiche (completamente sopraffatte nel Lazio dalle inutili polemiche sui vizi di forma nella presentazione delle liste da parte della Destra, cosa che ha reso la Polverini una vittima verso la quale provare piuttosto simpatia) quanto piuttosto mi rammarica constatare che, nonostante la politica fallimentare del governo e le imbarazzanti vicissitudini private del premier, noi italiani continuiamo a subire il fascino di Berlusconi, unico e incontrastato vincitore delle elezioni.
Inutile negarlo: il nostro primo ministro è un genio della comunicazione e un abilissimo conoscitore delle armi di seduzione di massa e le applica tanto alle donne quanto al popolo. La seduzione del resto è un arte che i retori latini e greci insegnavano ai giovani rampolli proprio in quanto elemento vincente per l’ottenimento dei consensi e che invece questa nostra sinistra sembra ostinatamente voler rinnegare, quasi la ritenesse troppo futile per poterla applicare alla loro seriosa concezione della politica.
Non vado oltre con le mie considerazioni per evitare critiche da parte degli espertoni della politica ma aggiungo solo un’immagine che è, secondo me, emblematica di quanto la politica elettorale italiana sia anomala rispetto al resto dell’Europa.
Domenica mattina vado a votare. Visto che ormai dormo come i vecchi, alle 9,30 ero già al seggio.
Quasi tutti quelli che entravano all’interno della mia vecchia scuola elementare avevano in una mano la scheda elettorale e nell’altra il ramoscello d’ulivo che avevano appena preso a messa per la ricorrenza delle palme.
Non che fede e politica di sinistra non si possano conciliare, per carità, ma la prima cosa che mi è balenata in mente è stata: “c’è davvero spazio per le istanze della sinistra e per le battagli e sui diritti civili se abbiamo un elettorato del genere?”.

venerdì 26 marzo 2010

NON PARLARMI, NON TI SENTO



















Paperino mi trascina per il polso puntando verso il bancone di un pab ghei della periferia di Londra. Senza fermarsi si gira compiaciuto verso di me: “t’avevo detto che saremmo state le più fiche del locale”. Mi guardo intorno. Le poche decine di avventori sembravano davvero aver appena superato il provino per un film qualsiasi di Chen Loc.
Scrappy entra con il resto del gruppo: il mio ex, la peruviana e un ragazzo spagnolo conosciuto quella sera. Portarci in uno di quei bar di Soho dove bicipiti guizzanti fanno da controcanto a fugaci sguardi maliziosi e il chiacchiericcio cicisbeo viene soverchiato da un implacabile colonna sonora pop-aus-electro è fuori questione.
“Sarebbe come andare a vedere il Colosseo a Roma: troppo scontato”.
Paperino vive a Londra da anni e il suo concetto di “impedibile” è piuttosto discutibile ma sicuramente non banale.
Il pub è in zona 2 e se per alcuni londinesi questa equivale alla periferia di Bombei per Paperino è invece un territorio estremo dove anche gli omoricchioni hanno fattezze differenti dai loro corrispettivi della Siti e, in quanto tali, pensa che andare nei loro ritrovi sia un’esperienza da fare tanto quanto assistere ad una mostra di Damien Irst.
La musica è accettabile quanto basta perché “i forestieri” inizino a dimenarsi e i drinc a buon prezzo (altra qualità dei locali della seconda zona) fanno il resto.
Molti ballano, altri bevono, altri ancora sono già passati alla fase “mano nella patta, ma non la mia”. Io e la mia cistite invece cerchiamo un bagno. Una freccia stampata su un cartello insieme a un’elegante siluet di un cesso mi indica la strada verso la liberazione.
È al piano superiore dove scopro esserci un'altra sala. La musica è bassa e i ragazzi stranamente silenziosi e mi ci vuole qualche minuto per capire che i movimenti rapidi ed eleganti delle loro mani non sono il tipico vezzo dei ghei di far cambiare l’aria alla stanza gesticolando come avessero ali di farfalla al posto delle falangi ma è il linguaggio dei sordomuti.
Fantastico! Al secondo piano si sta svolgendo un’ossimorica festa per ricchioni che non sentono. Rimango lì qualche minuto per far riprendere i miei timpani stuprati da troppo “It mi beibi uan mor taim!!”, quando la requie viene schiacciata sotto i passi pesanti di Scrappy che risale le scale in cerca anche lui del bagno.
“Amo’ che stai a fa?”, mi chiede ansimando per ripidezza della rampa.
“Hai visto che qui c’è un’altra sala?”.
“Senti me fanno male le gambe. Resto un po’ qua a riposamme”. In ogni sua frase c’è molta Mamma Roma e lo lascio lì a stravaccarsi sul divanetto.
Passa un’ora circa. Il resto della ciurma è stanca e vogliamo andare via. Scrappy non si vede.
“E’ di sopra. C’è una sala dove stanno facendo una festa per sordomuti”, dico agli altri mentre saltello sulle scale per andare a recuperarlo.
Sullo stipite della sala c’è un ragazzo schiacciato contro la porta. Ha gli occhi sgranati e l’espressione spaesata. Davanti a lui, mano sul fianco e dito ammonitore, c’è Scrappy.
Non lo chiamo subito perché voglio godermi la scena: è evidente da come parla che non si è accorto che il ragazzo, come gli altri del resto, non sente e gli sta riversando addosso un’alluvione di frasi anglo-romane.
“Scrap, dobbiamo andare!”, gli faccio con il giaccone in mano.
“Sì, arrivo. Je sto a insegna’ un po’ di italiano”.
E torna ad infierire sullo sventurato. “Sorri, ai go auei…dai ora dillo in italiano: IO-VADO-VIA”.
E il ragazzo, più per timore di una reazione violenta che per reale compiacimento, lo asseconda: “IO ADO IA”.
“No!! IO VADO VIA!”, grida Scrappy mentre impenna indice e medio formando un’imperiosa V.
“VADO VIA: con la V. ripeti!”.
Il ragazzo è stremato ma non molla: “ADO IA!”.
“Cazzo!”, insiste l’aguzzino. VADO VIA!!”.
Poi subentra la compassione. “Scrap, ti sei accorto che il ragazzo è sordo? Anzi, ti sei reso conto che tutti i ragazzi al piano lo sono?”.
Scrappy ha la carnagione molto chiara eppure riesce ad assumere un colorito al cui confronto il marmo sembra cotto toscano. Si guarda rapidamente intorno, poi fissa il ragazzo sempre più allucinato e capisce. Ha lo sguardo mortificato ma non riesce più a dire una parola e con uno scatto isterico si cala il cappuccio della felpa fino al naso precipitandosi giù per le scale non senza avermi prima sussurrato: “sei una merda. Potevi dirmelo prima!! Poi famo i conti”.

martedì 16 marzo 2010

LE MINE VAGANTI FANNO SALTARE SULLA POLTRONA


Adesso non ricordo più bene se nel renching delle torture venga prima o dopo la compressione del cranio in una morsa meccanica ma ad ogni modo vedere un film nelle prime due file di un cinema sono certo rientri tra le prime tre. E comunque una risoluzione dell’ONU dovrebbe averla bandita da tempo. Nonostante ciò, ancora domenica scorsa, attraverso il vetro blindato che trattiene tanto le pallottole quanto le onde sonore costringendoti a improbi tentativi di lettura del labiale, la cassiera propone a me e a Scrappy una “seconda fila. Laterale”. Pure! Insomma, a 40 minuti dall’inizio dello spettacolo, una sala da 500 posti era già tutta piena.
Sono certo che neppure Ferzan Ozpetec s’aspettava questa fiumana di pubblico. Era come sei qualcuno avesse sparso la voce che insieme al biglietto del suo ultimo film, “Le mine vaganti”, avrebbero regalato un lingotto d’oro da 5 chili.
Alla fine però, dopo aver vagato per altri due cinema che invece i biglietti li avevano esauriti del tutto (incredibilmente anche le prime due file), troviamo requie al Giulio Cesare, in una deliziosa quinta fila. Ma sempre laterale.
Se uno dovesse azzeccare la trama del film in funzione del pubblico che assiepa la sala, probabilmente penserebbe ad un film su Padre Pio interpretato da Collin Farrel che ha garantito, non senza suscitare una certa perplessità da parte degli agiografi del frate dai mille miracoli, una scena di nudo frontale. Metà del pubblico è composta da anziane mess’impiegate e da un’altra metà da branchi di omoricchioni ridanciani.
Orbene, il film.
Partiamo col fare una premessa. Il mio senso critico non è particolarmente affinato e non si perde mai in dettagli tecnici. Non sto lì a giudicare se il montaggio incrociato in quel passaggio interrompa o meno il flusso narrativo o se le posate impiegate in realtà sono state prodotte in un decennio posteriore rispetto a quello raccontato nella storia. E’ un po’ come per gli uomini. Dettagli come le unghie mozziate o i calzini corti diventano del tutto marginali rispetto all’avvenenza del soggetto. Allo stesso modo per me un film o mi piace o mi fa cagare.
“Le mine vaganti” è un bel film. Ozpetec finalmente ha aperto una finestra sulla commedia per farci prendere una boccata d’aria dopo la lunga teoria di tragedie seconde solo alla biografia di Liz Teilor. Ci si commuove, per carità, ma non esci chiedendoti se sia maglio farla finita lanciandosi sotto un tram o sottoponendoti alla visione di Mutande Pazze diretto da Roberto D'Agostino.
Forse grazie all’apporto nella sceneggiatura di Ivan Cotroneo, la storia dirotta spesso sulla commedia, quella bella, all’italiana, quando questo termine evocava le sceneggiature di De Sica, il padre, e non quelle da denuncia del Moige interpretate da De Sica, il figlio.
La storia in breve.
Un ragazzo dalle chiappe affamate torna in Puglia dai genitori per dire a tutti non solo che alla passera preferisce il fringuello ma che ha anche velleità artistiche di scrittore. Confessa i suoi intenti la sera prima al fratello maggiore che, vista la mala parata del figliol prodigo, lo frega in volta rivelando a cena la SUA allegrezza di chiappe, conquistando così un’amara libertà ottenuta con il diseredamento familiare e costringendo il secondo genito a tenere segreta la sua condizione perché se a un padre viene un infarto per un figlio frocio, per due va diretto al Creatore.
Il figlioletto, interpretato da Scamorcia (che alla fine non è manco male ma a me mi fa il sesso di un caciocavallo appeso), tenta di prendere le redini dell’azienda di famiglia inizialmente promessa a quel furbo (e bono, lui sì e pure parecchio) di Alessandro Preziosi ma finirà per confessare ai genitori che in realtà del pastificio di famiglia gli interessa più o meno come un fine settimana su un isola deserta con la Bellucci e che lui a Roma vuole tornare per fare l’artista (e sono tutti capaci a farlo quando hai i pippi di papà che ti mantengono, ma queste sono considerazioni mie dettate da pura invidia).
Nel mezzo, tanti personaggi, tutti ben scritti e ben interpretati. Forse un po’ cliscé, forse un po’ macchietta, ma gradevolissimi. Dalla zia alcolizzata che vive di rimpianti, a una nonna che sa tutto e vede tutto, che mal sopporto il macismo di suo figlio che ottusamente lo ha portato a rinnegare il nipote in nome di un’onta ben comprensibile a noi italiani. La vecchia però paga tanta saggezza e una vita passata a soffocare il suo amore per un cognato fatto della stessa pasta dei nipoti (conferma della tesi frociogenetica) schiattando suicida dopo una goduriosa abbuffata di dolci che le procura un’overdose insulinica (sì, anche stavolta infatti Ferzan non ce la fa e, nonostante la leggerezza che pervade buona parte del film, il morto ce lo deve far scappare, per cui proporrei di ribattezzarlo Gessica Ozperec o Ferzan Fleccer, a gusto vostro).
Ma veniamo ora al punto focale, alla vexata questio, che rimpiazzerà per anni la secolare disputa sul conflitto d’interessi di Berlusconi e il vero sesso di Amanada Liar: la rappresentazione dei ghei nel film.
A un certo punto infatti, siccome 2 fratelli omoricchioni non bastavano, arrivano a dare brio alla storia un gruppo di amici romani di Scamoscia, tra i quali il compagno di quest’ultimo (uno di questi è interpretato da Pecci, che dio lo benedica e poi me lo mandi a casa).
In effetti, il teatrino di loro che si censurano e si controllano per soffocare l’odalisca che alberga nei loro animi è un topos assai visto (persino in Priscilla c’è la travestita che tenta un inutile contegno) ma a me non importa e del resto non è detto che la ricerca dell’originalità abbia un valore artistico assoluto. Questo manipolo di invertiti, cantano i classici della musica frocia mentre fanno la doccia. Fanno coreografie in mare. Riconoscono al volo la stilista dell’abito indossato dalla Grimaudo (di una bellezza che lascia disorientato anche me facendomi affiorare orrendi pensieri tribadici). Tutte cose che faccio, faccio e faccio. Certo non che io sia l’ago della bilancia sul quale tarare il variegato universo ghei, ma ho trovato questi personaggi veri, credibili, simpatici (anche al pubblico delle babbione) e non caricaturali, con buona pace dei ghei che non si sentono rappresentati perché “loro tutte queste cose non le fanno”: peggio per loro perché si divertono molto di meno.
Quindi, con lo sforzo che fa ogni volta un frocio di riconoscere il valore dell’opera di un altro gahei, ribadisco il fatto che “Le mine vaganti” è un bel film, certo con qualche claudicanza, ma assolutamente piacevole, dove finalmente i gay non vengono uccisi a colpi di fucile, non cadono in un fosso, né vengono sbranati dai lupi ma vivono la loro vita “normalmente”, anche quando la loro normalità è fare con gli amici le sincronet nelle limpide acque di Gallipoli.


PS: un consiglio. Causa continui movimenti di macchina stile “giro, giro tondo quanto è bello il mondo”, vi consiglio di andare a stomaco vuoto e di non fare come me che dopo un pacchetto di noccioline glassate ho rischiato di vomitare sulla testa dell’ottuagenaria seduta davanti.

martedì 9 marzo 2010

ALICE IN THE NOIALAND.














Il Maestoso è uno dei più gloriosi cinema periferici di Roma. Una volta il più grande della capitale, con la crisi subì anche questo il frazionamento in 5 sale. Ed è anche forse l’ultimo cinema a permettere agli ambulati di vendere davanti l’ingresso: bruscolini, noccioline, fusaie, zucchero filato, pop corn imbustati in sacchetti di cellofan e prelibatezze locali come i mosciarelli (ndr, per chi vive fuori dal GRA: castagne sbucciate adatte solo a robuste dentature o impianti ortodontali avvitati con il titanio).
Appuntamento alle 20 con Scrappy davanti al chioschetto, il mio amico costumista ormai affermato che grazie a dio stasera non indossa la pelliccia di pelusc nero ma un quasi sobrio giubbotto con guarnizioni argentate.
Facciamo un po’ di spesa per confortarci durante la visione di “Alice nel paese delle meraviglie” di Tim Barton.
In sala inforchiamo gli occhialini per il tre D che, francamente, iniziano ad essere un po’ abusati. Scrappy mi guarda lanciandosi in bocca un mosciarello da 2 etti e dice: “co’ ‘sti occhiali pari Pasolini!”, che, onore al suo genio, francamente proprio un adone non era.
Dunque…sì! Alice.
Io non so praticamente nulla della storia. So che è stato un classico dell’animazione della Disnei, come anche Piter Pan, Bambi e tante altre fiabe a me sconosciute dal momento che quando ero piccolo, mio padre preferiva piuttosto trascinarmi al cinema a vedere Cleopatra, un carrozzone roboante di 12 ore, interpretata da Liz Teilor vestita come una Pussicat Dol, convinto che fosse più educativo per me conoscere la storia attraverso i film che perdere tempo appresso a favole dove dei topini squittanti cuciono vestiti per una stracciona con aspirazioni principesche che fa la sguattera nella villa di due sorelle stronze.
In breve la storia.
Una 19enne si deve maritare con il ragazzo più brutto delle isole britanniche e, davanti alla schiera di amici e parenti, rifiuta la proposta di matrimonio (cosa che avrebbe fatto persino una disperata come Rosi Bindi, figuriamoci lei che ha un bocciolo di rosa al posto delle labbra e capelli come trucioli di legno ambrato). Distratta da un coniglio bianco con un doppiopetto, Alice scappa dalla festa e, corri, corri, cade in un tunnel che la precipita in una stanza dove, beviti una cosa, mangiatene un’altra, la ragazza si allarga e si restringe con la stessa rapidità con cui Gianet Gecson prende e toglie chili. La trama ha il sapore di un acido a stomaco vuoto ma leggendo la biografia dell'autore che ha visto più camice di forza che tramonti, risulta del tutto comprensibile.
La storia è la solita: lei eroina ignara dovrà salvare questo mondo fatato dalla cattiva e macrocefala regina rossa che ha defraudato la sorella bella e buona e per fare questo, Alice, da insulsa signorina che non sapeva neppure farsi una treccia ai capelli, si trasforma in una guerriera che indossa un’armatura d’argento e con una spada decapita un drago, evidente metafora della flessibilità lavorativa anch’essa frutto di sfrenate fantasie governative.
Per arrivare a fare tutto questo, la storia si srotola con ritmo ma senza passione attraverso le scenografie del Signore degli anelli, Avatar, e i Cesaroni. Tanti effetti speciali, troppi, che vanno bene per un video musicale di Ladi Gaga o per uno propagandistico del capo del governo, ma non per un film. Gionni Dep, sembra Suini Tod, che sembra Gec lo squartatore che sembra il pirata dei carabi: ormai sembra un copia e incolla di se stesso.
La recitazione, anche quella sempre impeccabile della Bonam Carter, è asfissiata da troppi effetti visivi che diventato ridondanti. La sola cosa a tenermi sveglio è il rumore di mais tostato schiacciato dalle ganasce di Scappy.
Insomma la fine del film la vivo come una liberazione e non avendo paragoni con cui confrontarlo ne esco con un giudizio abbastanza indifferente. A me poi tutti questi animali parlanti e la filosofia spicciola dell’"essere padrona della propria vita" mi annoiano parecchio e se è questa la lacuna fiabesca che ebbi da bambino, ringrazio mio padre di avermi costretto piuttosto a vedere Ben Hur, sebbene interpretato da quella patata parlante di Ciarlton Eston.

venerdì 5 marzo 2010

IL SUPPLIZIO DELLA GELOSIA.















Una delle esperienze più umilianti a cui sia stato sottoposto in vita mia appartiene al periodo in cui ero fidanzato con R.
Il sopraccitato era, ed è, uno dei ragazzi più belli che avessi mai visto e questo mio peccato che gli antichi chiamavano Ubris (ma tradotto potrebbe benissimo dirsi: superbia) veniva sistematicamente castigato dal fatto che non potessi andarci in giro senza che si mettesse in scena il solito dramma:
“lo conosci?”, mi faceva il pretendente di turno indicando il mio ragazzo.
“sì”, rispondevo, senza rivelare immediatamente il legame che mi univa a R., giusto per il gusto di confessarglielo poco dopo con un tono che fosse sufficientemente arcigno da mettere in imbarazzo il postulante.
“me lo presenti?”, azzardava.
E io, come ho detto, mi godevo la loro espressione costernata alla mia risposta: “è il mio ragazzo”.
Per fortuna questo strazio è terminato tanti anni fa e adesso il supplizio è ricaduto sulle spalle del suo nuovo fidanzato, per altro, uno rispetto al quale Otello risulta geloso come Schicchi con Eva Engher.
Ho rievocato questo periodo infernale della mia vita perché stamattina mi è tornato alla mente vedendo una coppia di ragazzi che frequenta la mia palestra.
Sono entrambi molto carini ma uno è davvero di quelli per cui saresti disposto a soffocare un neonato nella culla pur di averlo. Bello di viso, corpo perfetto, atteggiamento disinvolto quel tanto che basta perché i finocchi della mia palestra siano disposto a cambiare orario e a svegliarsi alle 6 del mattino pur di vederlo allenarsi (alle 8 e un quarto infatti è già lì sdraiato su qualche panca piana).
Sarà che ho vissuto la stessa esperienza e provo quindi naturale compassione per quelli che come me sono stati condannati ad avere il fidanzato bono ma a me il ragazzo fa tenerezza. Forse è la mia malizia a parlare ma qualcosa mi dice che il compagno se ne starebbe volentieri a letto a dormire ancora un paio d’ore se non si sentisse costretto a seguire l’altro per paura che qualcuno se lo rubi perché, va bene la fiducia, ma il controllo è meglio e seppure alle 8 del mattino, in un turno solitamente popolato da anziani insonni e impiegate culone è sempre bene vigilare.
Insomma, la Ubris del ragazzo bono è un vero calvario lastricato di gastriti intestinali e rodimenti di culo.
Un mio amico è convinto che per risparmiarsi tutto questo basterebbe evitare di frequentare locali omoricchioni segregando il proprio fidanzato in cassa, facendogli prendere una boccata d’aria ogni tanto portandolo non oltre il giro intorno al palazzo coperto come uno dei figli di Maicol Gecson o prendendo la drastica decisione di sfigurarlo con l’acido a mo’ delle donne pachistane.
Un altro sostiene che la cosa migliore sia fidanzarsi invece con uno brutto, come se la poca avvenenza fosse un amuleto in grado di annientare la gelosia a beneficio della fedeltà.
Ma non credo che sia questo il rimedio, per altro piuttosto gretto, per essere sicuri che la condotta del proprio compagno non ci porti a restare incastrati attraversando lo stipite di una porta.
La bellezza, è vero, offre molte più possibilità ma volerle cogliere è tutta un’altra cosa.
Ho sempre pensato invece che i meno avvenenti sono quelli a caccia di maggiori conferme e proprio per questo, più propensi al tradimento.
In più le corna sono sempre corna, sia che a mettercele sia un adone o un crotalo ma se davvero devo portare ramificazioni ossee sul capo a imperitura prova del tradimento del mio fidanzato, che almeno a mettermele sia un bel ragazzo.