Qui Festival di Torino.
Ieri è stato il mio primo
giorno di giuria. Oltre ai corti che dovrò giudicare, avere un pass che mi
permette di assistere a tutte le pellicole in concorso è un privilegio troppo grande
e una tentazione troppo forte per non approfittare di vedere anche altri film.
Complice un tempo da lupi (tale lo è per chi come me arriva dal clima tropicale
romano, quello che fa mettere a noi capitolini dei piumoni d’alta montagna non
appena la temperatura scende sotto i 18 gradi) credo di aver visto non
meno di 15 lavori. Molte storie parlano di relazioni affettive condivise,
clandestine, estreme, frustrate o celebrate perché anche se del cinema gay,
come in quello di Sanremo, a questo festival gli autori raccontano per lo
più l’amore.
Ecco, sapete, ieri vedere
tante storie incentrate su questo "Crazy Lillte Thing Called Love" mi ha dato una sensazione di struggente
privazione e desiderio che credevo persi da tempo.
Si dice che le storie
d’amore, se ben raccontate, hanno il dono di essere universali ed è vero, Love
Story ancora mi procura diarree lacrimali incontrollabili, ma vederne tante, tutte
insieme poi, con protagonisti gay mi
ha portato a un livello di immedesimazione maggiore.
Un limite? Forse, ma penso anche che quando leggiamo un romanzo, vediamo un film, ascoltiamo una
canzone, questi ci piacciono e ci coinvolgono quanto più sembrano parlare proprio a
noi, raccontandoci il nostro di mondo e il momento che viviamo.
Ricordo la prima volta che
vidi Maurice. Certo ero piccolo, certo era 100 anni fa e all’epoca pensavo di
essere il solo gay sulla terra, certo non avevo ancora mai amato, ma quella
storia d’amore tra due ragazzi fu la causa dello struggimento di giorni perché,
sebbene estremamente drammatico e con un finale da tragedia greca, raccontava
quello che ero, i miei desideri e quella passione che avrei voluto anche per me. Sensazioni che ho rivissuto ieri dopo l’overdose
di racconti dove è stato più semplice immedesimarmi, più di quanto mi riesca
vedendo Jenny Cavallieri pronunciare a quella faccia di patata del marito,
moribonda nel letto: “amare significa non dover mai dire: mi dispiace”.
1 commento:
uno dei post più belli che tu abbia mai scritto!
Posta un commento