domenica 21 aprile 2013

Crazy Little Thing Called Love.



Qui Festival di Torino.
Ieri è stato il mio primo giorno di giuria. Oltre ai corti che dovrò giudicare, avere un pass che mi permette di assistere a tutte le pellicole in concorso è un privilegio troppo grande e una tentazione troppo forte per non approfittare di vedere anche altri film. Complice un tempo da lupi (tale lo è per chi come me arriva dal clima tropicale romano, quello che fa mettere a noi capitolini dei piumoni d’alta montagna non appena la temperatura scende sotto i 18 gradi) credo di aver visto non meno di 15 lavori. Molte storie parlano di relazioni affettive condivise, clandestine, estreme, frustrate o celebrate perché anche se del cinema gay, come in quello di Sanremo, a questo festival gli autori raccontano per lo più l’amore.
Ecco, sapete, ieri vedere tante storie incentrate su questo "Crazy Lillte Thing Called Love" mi ha dato una sensazione di struggente privazione e desiderio che credevo persi da tempo.
Si dice che le storie d’amore, se ben raccontate, hanno il dono di essere universali ed è vero, Love Story ancora mi procura diarree lacrimali incontrollabili, ma vederne tante, tutte insieme poi, con protagonisti gay mi ha portato a un livello di immedesimazione maggiore.
Un limite? Forse, ma penso anche che quando leggiamo un romanzo, vediamo un film, ascoltiamo una canzone, questi ci piacciono e ci coinvolgono quanto più sembrano parlare proprio a noi, raccontandoci il nostro di mondo e il momento che viviamo.
Ricordo la prima volta che vidi Maurice. Certo ero piccolo, certo era 100 anni fa e all’epoca pensavo di essere il solo gay sulla terra, certo non avevo ancora mai amato, ma quella storia d’amore tra due ragazzi fu la causa dello struggimento di giorni perché, sebbene estremamente drammatico e con un finale da tragedia greca, raccontava quello che ero, i miei desideri e quella passione che avrei voluto anche per me. Sensazioni che ho rivissuto ieri dopo l’overdose di racconti dove è stato più semplice immedesimarmi, più di quanto mi riesca vedendo Jenny Cavallieri pronunciare a quella faccia di patata del marito, moribonda nel letto: “amare significa non dover mai dire: mi dispiace”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

uno dei post più belli che tu abbia mai scritto!