Ti accorgi che è iniziata
l’estate perché in palestra il traffico di iscritti aumenta esponenzialmente.
Orde di disperati che sperano nel potere del tapis che garantisce fatica ma di
certo non assicura miracoli.
Questo afflusso esagerato di
persone, unito all’alzarsi stagionale della temperatura e all’assenza totale di
una forma di areazione che non sia il semplice aprire i finestroni per creare
corrente (che diventa letale non appena ti si forma la prima stilla di sudore
addosso) fa sì che tutti sembrino dei dispersi nel deserto del Sahara, barcollanti,
affranti dalla fatica e prosciugati dalla sete. Una cosa che non manca però
nella nostra palestra è un distributore di beni di conforto. In realtà sono 2.
Nel primo “body building”, si trovano solo integratori e barrette proteiche (la
mia preferita è al pistacchio, zuccherosa come un wedding cake di quelle fatte
dai cuochi di real time eppure “no carb”, dichiarazione che ha
dell’incredibile).
Nel secondo “body fatting”:
noccioline americane, panini al salame e prosciutto e decotti di colesterolo
idrosolubili.
In questo però trovano
albergo anche le bottigliette d’acqua che in quel clima da fornace, diventano
più vitali di una siringa di insulina per un diabetico.
Fatto sta che tutti quindi
girano attaccati a queste bottigliette d’acqua e possono anche non ricordarsi
il nome della figlia ma di sicuro non si scordano di riportarsi via il prezioso
liquido spostandosi da una postazione all’altra dopo aver finito il loro
esercizio.
Io non bevo.
Almeno non l’acqua. Almeno
non durante gli esercizi. So che è sbagliato, ma è un’altra eredità da
imprintig ricevuta da mio padre.
Lui è stato per me come il
maestro Miyagi per Karaté Kid (I, II, III, IV e remake) e nella sua personale
(e totalmente priva di fondamenti scientifici) educazione sportiva l’acqua non
era contemplata.
“Fa male bere durante lo
sport”, mi gridava mentre io al centesimo giro di campo correndo appresso a lui
(meglio se di luglio e alle 2 del pomeriggio) iniziavo a ondivagare come Linsey
Lohan all’uscita di un cesso dell’Area Club di Los Angeles.
“Perché”, gli chiedevo
implorando.
“Perché sì” (che era
solitamente la stessa risposta che mi forniva, sia che gli chiedessi di spiegarmi
per quale fenomeno gravitazionale la luna girasse intorno alla terra sia perché
nel salame erano presenti tondini di grasso). Ad ogni modo questa cosa del non
bere quando si ha sete me la sono portata appresso e, ancora oggi, schiatto ma
non bevo. Mi faccio venire allucinazioni visive, ma non bevo. Mi desquamo pezzi
di pelle come cortecce di sughero ma non bevo.
Credo che la risposta al suo
rifiuto idrico fosse però nel fatto che per mio padre non c’era valore privo di
sofferenza né progresso senza dolore. Una concezione della vita che avrebbe
fatto sembrate Torquemada il pr del Pacha.
Ancora oggi che a 70 anni si
sveglia alle 6 del mattino per farsi 20 km di corsa (poi, ovviamente va anche
in palestra), si fa un vanto del fatto di correre senza inghiottire neppure la
sua saliva, con quella vanità furente dell’asceta che guarda con schifo le
umane debolezze.