venerdì 3 maggio 2013

L'ACQUA FA MALE.



Ti accorgi che è iniziata l’estate perché in palestra il traffico di iscritti aumenta esponenzialmente. Orde di disperati che sperano nel potere del tapis che garantisce fatica ma di certo non assicura miracoli.
Questo afflusso esagerato di persone, unito all’alzarsi stagionale della temperatura e all’assenza totale di una forma di areazione che non sia il semplice aprire i finestroni per creare corrente (che diventa letale non appena ti si forma la prima stilla di sudore addosso) fa sì che tutti sembrino dei dispersi nel deserto del Sahara, barcollanti, affranti dalla fatica e prosciugati dalla sete. Una cosa che non manca però nella nostra palestra è un distributore di beni di conforto. In realtà sono 2. Nel primo “body building”, si trovano solo integratori e barrette proteiche (la mia preferita è al pistacchio, zuccherosa come un wedding cake di quelle fatte dai cuochi di real time eppure “no carb”, dichiarazione che ha dell’incredibile).
Nel secondo “body fatting”: noccioline americane, panini al salame e prosciutto e decotti di colesterolo idrosolubili.
In questo però trovano albergo anche le bottigliette d’acqua che in quel clima da fornace, diventano più vitali di una siringa di insulina per un diabetico.
Fatto sta che tutti quindi girano attaccati a queste bottigliette d’acqua e possono anche non ricordarsi il nome della figlia ma di sicuro non si scordano di riportarsi via il prezioso liquido spostandosi da una postazione all’altra dopo aver finito il loro esercizio.
Io non bevo.
Almeno non l’acqua. Almeno non durante gli esercizi. So che è sbagliato, ma è un’altra eredità da imprintig ricevuta da mio padre.
Lui è stato per me come il maestro Miyagi per Karaté Kid (I, II, III, IV e remake) e nella sua personale (e totalmente priva di fondamenti scientifici) educazione sportiva l’acqua non era contemplata.
“Fa male bere durante lo sport”, mi gridava mentre io al centesimo giro di campo correndo appresso a lui (meglio se di luglio e alle 2 del pomeriggio) iniziavo a ondivagare come Linsey Lohan all’uscita di un cesso dell’Area Club di Los Angeles.
“Perché”, gli chiedevo implorando.
“Perché sì” (che era solitamente la stessa risposta che mi forniva, sia che gli chiedessi di spiegarmi per quale fenomeno gravitazionale la luna girasse intorno alla terra sia perché nel salame erano presenti tondini di grasso). Ad ogni modo questa cosa del non bere quando si ha sete me la sono portata appresso e, ancora oggi, schiatto ma non bevo. Mi faccio venire allucinazioni visive, ma non bevo. Mi desquamo pezzi di pelle come cortecce di sughero ma non bevo.
Credo che la risposta al suo rifiuto idrico fosse però nel fatto che per mio padre non c’era valore privo di sofferenza né progresso senza dolore. Una concezione della vita che avrebbe fatto sembrate Torquemada il pr del Pacha.
Ancora oggi che a 70 anni si sveglia alle 6 del mattino per farsi 20 km di corsa (poi, ovviamente va anche in palestra), si fa un vanto del fatto di correre senza inghiottire neppure la sua saliva, con quella vanità furente dell’asceta che guarda con schifo le umane debolezze.