lunedì 31 gennaio 2011

L'ISOLA DEI FAMOSI. QUANDO IL REALITY E' MENO DIVERTENTE DEI TG.
















Non credo abbia più tanto senso produrre uno show come L’isola dei famosi da quando alla finzione dei reality si è sostituita la realtà delle cronache più divertenti e pruriginosi e comunque costellate di wannabe ben più ridicole del attacco di emorroidi isolane che colpì Enzo Paoli Turci 3 edizioni or sono eppure anche quest’anno sta per partire l’ennesima edizione. Se hai un lavoro serio, di quello che ti tiene in ufficio dalle 9 alle 7, per te la maggior parte di loro oscilla tra l’anonimato e il mai sentito dato che sono attori di soap, invitate fisse nei talk postprandiali o subrettine pre TG.
Twist creativo di questa edizione è schierare 2 squadre composte la prima da sedicenti VIP e la seconda dai Figli di…che invece di sfruttare la raccomandazione parentale per un Sanremo o un posto in parlamento preferiscono finire segregati in un isola putrida del sud america, litigando per una scaglia di noci di cocco per poi passare, una volta tornati in patria, dalla condizione di sconosciuto a quella di anonimato perenne come è capitato alle decine di concorrenti delle vecchie edizioni, rivelando come la loro capacità di gestione della immagine sia pari al senso della misura del chirurgo estetico della Ventura che quest’anno avrà bisogno di una didascalia fissa in sovrimpressione con su scritto “Simona Ventura, conduttrice” per tutta la durata del programma.
Ma vediamo nel dettaglio i concorrenti di quest’anno.
Giorgia Palmas. Una delle 25 Veline sarde indistinguibili tra di loro. Credo adesso faccia inaugurazioni di fabbriche di seadas e poco più. Magda Gomes: brasiliana ma senza sorpresa inguinale. Una paio di calendari come modella e non stiamo certo parando di quelli di fratte indovino.
Raffaella Fico. Ex GFfina. Un paio di tette e culo che si muove e nulla di più. Qualche anno fa mise la sua verginità all’asta per un milione di euro ma vista l’assenza di offerte credo che sia passata alla beneficienza.
Luca Di Risio. Un mistero della musica. Uscito fuori senza sapere da dove è sparito senza che nessuno si chiedesse il perché. Nota positiva, ha un discreto fisichetto che visto il ridotto contributo della sartoria in questo programma va più che bene.
Thyago Alves. Un modello che lo vedi, ti guardi allo specchio e ti rendi conto che la teoria della discendenza dell’uomo da un unico ceppo di Darwin è una gran cazzata.
Raffaele Paganini. Credo che nell’ultimo tour aller il cervello gli sia schizzato fuori dalle orecchie. Può un etoile di danza finire a pescare granchi ravanando nel bagnasciuga con il culo all’aria? Pare di si, tanto se glielo chiedi ti risponde che: “volevo mettermi in discussione, alla prova con me stesso”.
Daniel McVicar volto noto di Beautifull. Stranoto qui da noi tra le prozac-casalinghe ma che se vai in america e chiedi di lui ti rispondono con un polifonico “chi cazzo è?!”
E poi lei, la vincitrice certa di questa edizione: Eleonora Brigliadori. L’unica in grado di sopravvivere ai morsi della fame e all’astinenza da cibo grazie alla sua ormai arcinota passione per l’urino terapia.
Nell’imbarazzante squadra dei Figli di…almeno 2 saranno la causa di ribaltamenti tombali: Francesca De Andrè, nipote di Fabrizio e Walter Garibaldi, pronipote di Giuseppe che se lo avesse saputo che fine avremmo fatto in Italia con questi programmi ci avrebbe lasciati divisi in regni e ducati.

giovedì 27 gennaio 2011

IL CASO RUBY E LE IMPLICAZIONI INTERNAZIONALI DEL CASO.



















Il 18 dicembre scorso ero ancora a Ny. Vado a una festa di Natale di amici di amici. Uno si avvicina.
"sei italiano?".
"Si".
"Ma com'è possibile che Berlusconi sai ancora al governo?".
E io a spiegargli l'inconcepibile.
2 gin tonic e 3 tartine dopo conosco un altro ragazzo.
"Sei italiano?"
"Si...", e già mi preparo.
Cosa fai cosa non fai e poi, puntuale: "Ma è vero che Berlusconi va con le minorenni? E nessuno fa niente?"
E provo a giustificare quella folta schiera di oppositori ma che tanto incisivi non riescono ad essere.
Un atro gin tonic dopo giro per le stanze e finisco accanto a un gruppetto di tre che appena mi vedono interrompono la conversazione e uno di loro mi chiede: "Sei l'amico italiani di Dan e Kurt?"
"No, lo siento. No ablo Ingles. Soi espanol...Hasta luego".

martedì 25 gennaio 2011

METTI UNA CENA AL CINESE.

















Giovedì scorso io e il mio amico costumista quasi affermato ci regaliamo una sera un po’ folle e decidiamo di andare al ristorante cinese sotto casa mia diventato ufficialmente gay non tanto perché ci vada io (elemento importante ma non determinante) quanto per un’insana attrazione della comunità omosessuale per il glutine e i germogli di soia.
Intorno a noi le solite coppie stanche lui+lei e lui+lui, di quelle che “Amo’ stasera numme va de cucina’”.
“Vabbé te porto ar cinese”.
Espressioni stanche, vestiti giustapposti con la cura di chi e sceso giù a far pisciare il cane e sguardi persi verso un punto laggiù all’infinito. Dietro il mio amico costumista però c’è la coppia regina. Lui è un crocevia di muscoli montati a neve e tatuaggi giapponesi. Uno di quelli che lo vedi e la prima cosa che ti viene in mente è “che coatto” seguito poi da un indulgente “però me lo farei”. Lei è una depresso-chic, pieghe degli occhi che devono puntare verso il basso per coerenza con il look dark di periferia.
Insieme: un esperimento sociologico. La conversazione tra me e Scrappy non può essere più interessante della loro per questo mentre cerchiamo di capire come possano quasi 3 miliardi di orientali afferrare bocconi di riso più grandi di un chicco con un paio di bacchette tiriamo fuori cuffie e microfono per ascoltare cosa si stiano dicendo questi due. Lui si vede che è in assetto di rimorchio. Lei è scoglionata come se stesse seduta su una sedia di ortiche.
Per cercare di battere l’interesse che lei sta dando di più a un piatto di involtini che a lui gioca la carta cinema. Un argomento facile come il tempo che non richiede una laurea in lettere e che generalmente riesce a far riprendere un minimo di quota alla conversazione anche se hai davanti una concorrente de “La pupa e il secchione”.
“La settimana scorsa ho visto “Benvenuti al sud””, fa il nerboruto.
“A me piace Ecce Bombo”, risponde con la grazia di una a cui uno le abbia appena dato della troia.
“Non l’ho visto…”.
“E’ un film sulla crisi esistenziale”, ribatte secca.
Pausa.
Finisce l’involtino e poi secca fa: “E’un film bellissimo, senza musica”.
“Mmmhhh…me sa che numme piace”, risponde il buttafuori sconsolato.
Poi il silenzio. Si alzano, vanno alla cassa lui le sorride, lei si sforza di rispondere e le paga anche la cena.
L’ho sempre detto: le coppie miste non funzionano mai.

lunedì 24 gennaio 2011

AUTOSCATTO E LA POSA DELL'IDIOTA.















C’è un’attrazione irresistibile che porta i gay a farsi le foto nei bagni delle camere d’albergo. Credo che siano le luci. Non so per quale motivo ma effettivamente quando esci dalla doccia e ti specchi sembri più magro e definito. Questo momento magico di equilibro psicofisico reso tale dal talento da qualche Storaro dell’industria alberghiera merita quindi di essere immortalato con una fotografia che sicuramente andrà a finire sul profilo di Gayromeo (che per chi vive con le chiappe sigillate diciamo essere una sorta di moderna Agorà per omosessuali dove ci si scambiano idee e informazioni iperuraniche quali: “dove abiti? Ospiti? Attivo o passivo?”).
Fin qui nulla di strano. Dare sfogo al proprio narcisismo non è ancora un reato sebbene venga molto spesso biasimato da schiere di vergini puritane dai candidi manti. La cosa che però è davvero insopportabile è la posa che definirei “auto ritratto dell’idiota”. Chiunque abbia un profilo su una chat gay o su Facebook (lo so che le ripetizioni sono stilisticamente poco piacevoli da leggere) sa di cosa parlo. Mi riferisco a quelli che scattano la foto ritraendosi con la macchinetta in mano per vedere nel monitor se la posa mette in risalto le proprie grazie.
È la tecnica fotografica più demente che si possa congegnare. Insomma anche le macchinette da 10 euro hanno la funzione autoscatto e non occorre leggere il libretto delle istruzioni per intuire che l’iconcina che sembra un timer è un timer che una volta impostato permette di fare una foto, meraviglia delle meraviglie, senza dover usare il proprio indice, permettendo al soggetto di avere un’espressione del viso un po’ meno imbecille di quella di uno che con un occhi cerca di guardarsi allo specchio e con l’latro centra l’obiettivo causandosi uno strabismo periscopico da camaleonte. Senza poi considerare la genialata di usare il flash. Il risultato è la foto di una sagoma umanoide affianco alla quale sembra esploso un reattore atomico o sia apparsa l’anima di un caro estinto: ideale per i programmi sul paranormale di rete4 ma assolutamente inutile per qualsiasi tentativo di seduzione.
Come dicevo molti amano ritrarsi nei bagni d’albergo ma la sindrome da autoscatto prende anche gli spogliatoi delle palestre o direttamente la sala pesi. C’è da riconoscergli l’abilità di cogliere l’attimo perché a meno che l’alto parlante non abbia annunciato un’evacuazione causa bomba non capisco come sia possibile scattarsi una foto con il proprio i phone mostrandosi torto come una statua di Fidia senza essere preso per il culo anche dalle vecchie artritiche in riabilitazione sulle cyclette.
Non tutti però frequentano le palestre ne viaggiano tanto spesso da compilare un album con “i migliori scatti dai bagni d’hotel” ma non per questo rinunciano all’auto scatto. E qui, come in un perverso gioco di scatole cinesi, affiora altro dilemma da togliere il sonno: quale frenesia di immortalarsi nel “qui e ora” può cogliere al punto da non preparare un minimo il set per lo scatto?
Stendini con i panni stesi, letti disfatti, pentole nel lavandino che debordano e orrendi foulard batik appesi alle pareti. E questo dovrebbe essere un ritratto che dovrebbe spingere qualcuno a lavarsi, vestirsi, uscire di casa, prendere la macchina, perdere il parcheggio, magari affrontare anche il freddo o il traffico, prepararsi uno o più argomenti a piacere di vago interesse per dare all’incontro una parvenza iniziale di incontro non solo finalizzato alla scopata? Se tanto mi da tanto ti ritrovi a casa di questo e ti tocca pure pulire i piatti ancora sporchi della cena spiegargli i panni appena asciutti che agonizzano stesi accanto al termosifone.

martedì 18 gennaio 2011

LO SCHIACCIANOCI E IL ROMPIPALLE.



















il 30 dicembre mi sono regalato un biglietto per assistere allo Schiaccianoci eseguito da New York City Ballet. Era una cosa che sognavo di vedere da tempo e il clima natalizio non aveva fatto altro che accrescere il mio desiderio di vedere questo grande classico. Avendo fatto danza da ragazzino ho sempre provato un’incredibile fascinazione per quest’arte. Mi piace tutto della danza, a partire dai riti della fertilità delle popolazioni aborigene della Papuasia. Certo io ho fatto prevalentemente moderna che sta al Bolshoi più o meno come una canzone di Shakira alla messa di requie di Verdi ma in qualche modo mi sono sempre sentito vicino a questo mondo, anche se come cugino di 12° grado.
Insomma il 30 tutto felice e ballonzolante me ne vado al Metropolitan di New York. Compro anche la maglietta del NYCB e la tazza, fondamentale. Mi sento pervaso dallo spirito della fata dentina e mi riempio gli occhi della meraviglia di quel teatro. La sola cosa che però mi inizia a preoccupare è la massiccia presenza di bambini accompagnati dai genitori che temo abbiano scambiato il teatro per un circo.
Salgo le 4 rampe di scale e nonostante più su del mio posto ci sia solo l’osservatorio del Rockfeller Center la vista è fantastica. E senza bisogno delle lenti del telescopio della Hubble!
Accanto a me si siede una deliziosa vecchia che temo abbia iniziato la scalata dei piani almeno il 12 novembre vista la lentezza con cui guadagna gli ultimi scalini. Alla mia sinistra tre ventenni, evidentemente delle ballerine visti i loro corpi e il collo teso come la traiettoria di una freccia.
Dietro di me una coppia con un bambino dall’apparente età di 5 anni.
Si leva il sipario e quello sembra il segnale convenuto perché questo inizi a commentare ogni singolo movimento del balletto. Una specie di radio che sputa parole senza sosta. I genitori sono di quella orribile razza che crede che i figli vadano assecondati sempre e comunque e non tramortiti con un colpo alla nuca per farli tacere (metodo con il quale io sono stato allevato e bene). Rispondevano ad ogni suo appunto pur cercando timidamente di fargli capire di abbassare la voce.
Da quanto riuscivo a capire il pargolo aveva già visto il balletto alla tv e criticava ogni discrepanza da questo quindi o si trattava di un bambino prodigio o era il critico del New York Times affetto da nanismi armonico.
A poco sono serviti i miei sbuffi e le occhiatacce delle tre silfidi (la vecchia nel frattempo si era assopita, ma almeno non russava): lui ha continuato imperterrito. E fosse stato il solo! A poca distanza un altro aveva iniziato a piangere mentre si sentivano fringnii diffusi per tutto il teatro.
Insomma tornado a casa ancora inebriato dalla meraviglia (più vista che ascoltata) stavo considerando come la colpa non fosse dei ragazzini indolenti quanto di genitori troppo esigenti. Solo perché lo Schiaccianoci è una favola non significa che sia per un pubblico di bambini! Anche l’Anello dei Nibelunghi non è certo una storia vera eppure non puoi sottoporre dei ragazzini al supplizio di 14 ore di opera in tedesco solo perché sei convinto che questo sia formativo per il loro sviluppo culturale. A 5 anni ma che vuoi che si ricordi?
A quell’età portali a Central Park a giocare a baseball o fagli costruire un aquilone.
Il problema dei bambini è che crescono succubi delle aspettative dei genitori. Oggi come ai miei tempi. Ma adesso sembra che gli si richieda ancora di più.
Quello che sfugge ai genitori è che essere bambini è diverso rispetto all’idea che un adulto si fa di quello che un bambino vuole davvero fare.
Eppure bambini lo sono stati anche loro. Ma non se ne ricordano.

lunedì 17 gennaio 2011

E' MORTO UN UOMO, NON UN GAY.

Ieri mattina è morta un uomo a Roma in seguito probabilmente ad un eccesso di stupefacenti e acol. Mi dispiace molto per lui non tanto perché lo conoscevo di vista né perché fosse gay ma semplicemente perché è una tragedia verso la quale si deve avere solo un'atteggiamento di umana "pietas" e verso la quale il pudore dovrebbe togliere lo spazio ad ogni commento.

Capisco che il dovere di cronaca sia a volte un diritto difficile da gestire ma la professionalità e il talento di un cronista si misurano proprio nel saperlo gestire assolvendo al proprio compito senza mai scadere. Ma in un'Italia dove se sei una valletta puoi diventare ministro, il professionismo perde di valore. E' così quindi che ti capita di leggere un articolo del genere su un giornale on line che certo non è il Corriere ma che mortifica la memoria di Marco e precipita in un baratro di melma chi lo ha scritto.

L'autrice è Daniela Caruso, evidentemente donna priva di pudore che ieri pubblicava questo pezzo oggi già censurato. Come se non fosse già abbastanza doloroso per i cari di Marco sapere della cosa, come se non fosse già tragico il modo in cui è morto, questa "giornalista" ha aggiunto del sordido senza motivo, arrogandosi il diritto di descrivere qualcosa che non ha conosciuto, trattando la vita di un essere umano come un "argomento" sul quale tamburellare le sue dita redigendo un articolo putrido come la sua mente presentandoci un paradigma ben più diffuso e condiviso di come ci vedono "gli altri".
Daniela Caruso, ti biasimo e ti giudico pubblicamente. Daniela Caruso: sei una grande stronza.



Sembrava una festa gay tranquilla, con tanto alcool e divertimento omosessuale per tutti gli invitati. Tanto sesso gay tra uomini, ma al momento non ci sono ritrovamenti di droga o stupefacenti. Eppure, stamattina – dopo la nottata di bagordi – due persone si sono sentite male. Erano addormentate su un divano, dopo aver sfogato i propri istinti omosessuali tutta la notte. Quindi gli altri invitati sono andati per svegliarli, uno era già morto e l'altro era in coma. L'ambulanza del 118 è stata allertata verso le 6 di mattina ed ha trasportato d'urgenza la vittima in ospedale. Sulla questione indagano i carabinieri. La festa era cominciata come una cena in un appartamento di via Antonazzo Romano, nel quartiere Flaminio di Roma. La dinamica dell'incidente che ha portato alla morte di un omosessuale è ancora poco chiara. I carabinieri della stazione Flaminio stanno effettuando i rilievi del caso. Finora non sarebbero emerse evidenze di sostanze stupefacenti nell'appartamento che è stato setacciato palmo a palmo. Eppure, il gay morto aveva in circolo quantità di droga. Non è la prima tragedia legata all'utilizzo di sostanze stupefacenti. Di solito, dopo un rave-party i media fanno la conta degli intossicati e dei morti. Roma è anche diventata la capitale delle droghe, in particolare della cocaina che ora si vende ad ogni angolo di strada a prezzi contenuti. Insomma, un mix letale che, unito alla trasgressione tipica dei festini gay a base di sesso, ha stroncato la vita di un giovane omosessuale.

Daniela Caruso

venerdì 14 gennaio 2011

NYC DOG

















Probabilmente quando ricevi il patentino di gay, insieme a un barattolo di lubrificante e 2 biglietti per il musical Wicked di Broadway a New York ti danno anche un cane. Almeno quella è la definizione che troveresti sull’enciclopedia zootecnica della Garzanti perché altrimenti descriverli tali quei “cosi” ha la stessa corrispondenza di definire essere senziente Daniela Santanché: formalmente corretto ma concretamene inconcepibile. Infatti l’essere che trotterella tutto scoordinato all’estremità di guinzagli resistenti quanto un filo di seta sono una versione Bignami di quello che dovrebbe essere un cane. Pincher e Carlini sono in assoluto i più adottati. In alternativa anche dobermann o alani purché dopati con inibitori della crescita come facevano alle atlete sovietiche della ginnastica artistica negli anni ‘70 per mantenerle minute e compatte con il fine di eseguire al meglio i loro volteggi.
Visto che a NY l’eufemismo “studio” sta ad indicare un monolocale spesso ampio e confortevole quanto un poro della pelle, non è pensabile avere un cane che superi i 7 centimetri al garrese ma è altrimenti indispensabile averne uno per poter giustificare strusci di ore lungo le strade di Chelsea (o del Village, Hel’s Kitcken e qualsiasi altra area gay della città che ora a pensarci bene è tutta un’unica area omosessuale).
Oltretutto animali del genere mangiano poco, sporcano meno, sono assolutamente inabili a qualsiasi forma di difesa del padrone ma non foss’altro che per capire se si tratta di un topo dalla coda mozza o di un vero e proprio cane funziona ancora come specchietto per le allodole, ottima attrattiva utile al rimorchio per quei gay che non si sognerebbero di usare un bambino in adozione, di certo più attraente ma infinitamente più complicato da gestire.
La cosa più inquietante è che spesso i padroni di questi trucioli di canide sono per lo più finocchie nerborute e ipetrofiche, tatuate male e vestite come delle coatte di periferia il che nell’insieme regala una visione beconiana della cosa. E questo se non li senti mentre cercano di impartirgli dei comandi. Ovviamente i loro pet fanno tutt’altro che obbedire non tanto per una loro congenita indisciplinatezza ma perché essendo così piccoli non sono stati provvisti di sistema uditivo. Del resto anche le Smart hanno un numero limitato di optional.
Un consiglio se come me puntate ancora all’uomo da ingallare: pochi, ma ci sono persino dei gay che portano a spasso cani veri, di quelli che li identifichi come tali anche a 50 metri di distanza. Ecco puntate su quelli, avere una taglia forte è la riprova che il padrone abita in una casa di almeno 60 metri quadrati che a Manhattan significa: ricco!

martedì 11 gennaio 2011

SIGNORINI PER LE MASSAIE.
























“Non ho niente contro Elton John, che conosco e stimo non solo come cantante. Suo figlio non potrà contare sulla figura veramente insostituibile per un bambino: quella della madre. Sono d’accordo con Papa Benedetto XVI quando afferma che i bambini devono crescere in una famiglia dove ci sono un papà e una mamma”.
Anche Alfonso Signorini dice la sua sulle famiglie gay. Ancora una volta io mi chiedo se il diritto d’espressione e la condivisione pubblica del proprio pensiero non siamo diritti sopravvalutati.
Certamente le sue opinioni non hanno il potere di invertire il susseguirsi delle stagioni, ma è la riprova di come certi omosessuali abbiano una così tale disistima della loro identità da fare dichiarazioni spesso feroci a partire da loro stessi.
Da una parte è lampante la sua piaggeria verso uno schieramento politico che ha nel suo leader il suo editore/padrone. Dall’altra è chiarissima la sua ricerca di benevolenza del massa di massaie, sostentamento cardine della sua carriera di direttore di testata (del resto dirige Chi, non certo i Quaderni di critica filologica) ma la cosa che più mi colpisce è quanta poca autostima abbia se si dice convinto del fatto che una coppia omosessuale non possa, anzi non debba, avere dei figli altrimenti privati della figura materna (idem per le lesbiche specularmente detrattrici di quella paterna). Ora che lui non si senta in grado di assolvere al ruolo, può anche essere plausibile ma che debba tirare dentro un’intera categoria composta da milioni di persone è una posizione quantomeno presuntuosa.
Certo, è una sua opinione. Ma mi sono seccato di veder tirare fuori questo patentino d’immunità ogni volta che qualcuno dice una stronzata. E l’educazione di un bambino va ben oltre l’opinione soggettiva. Quel che rende un individuo sano ed equilibrato non deriva da meri fattori matematici: madre+padre=individuo equilibrato. E questo lo diceva il mio professore di lettere alle medie, ed era un sacerdote. Per crescere una persona felice ci vuole impegno, sacrificio, determinazione. E gli omosessuali ne sono in grado tanto quanto gli eterosessuali. Se lui pensa il contrario, si riferisse solo alle sue capacità ma che per favore, non trascinasse anche me nella sua pozzanghera di inadeguatezza perché non sempre bisogna avere un’opinione su tutto e perché commentare a Verissimo le storie d’amore che nascono tra i concorrenti del Grande Fratello non è facilmente giudicabile quanto esprimere un parere sulla felicità di un essere umano.

venerdì 7 gennaio 2011

SOLAMENTE INSIEME.




















Ne hanno parlato già molti. Leavitt addirittura dice di averci scritto un intero libro negli Starbucks quindi probabilmente non aggiungo nulla di nuovo quando parlo della fenomenologia dell’intimità condivisa dei bar di New York.
In questi giorni mi è capitato di passare tantissimi giorni da solo ed essendo un animale molto sociale e socievole inizialmente ho provato un opprimente senso di abbandono. Del resto essere totalmente padrone e responsabile del proprio tempo è una cosa che ci da una responsabilità enorme della quale preferiamo responsabilizzare gli impegni e le persone altre che la condizionano.
Nonostante scrivere sia una pratica assolutamente solitaria, dopo un po’ ho iniziato comunque a sentire il bisogno di avere intorno a me altra gente, come i bambini che vogliono dormire rassicurati da una luce accesa che non protegge da nulla ma rassicura.
E ho notato che in qualsiasi caffetteria andassi eravamo tanti soli che senza dirselo esplicitamente si facevano compagnia. Ogni tanto ci si lanciava qualche sguardo sorridente, un cenno con il capo, forse addirittura un saluto e 4 chiacchiere, consapevoli del proprio individualismo ma che non era mai un muro invalicabile.
Forse a causa delle case che qui sono spesso davvero dei buchi, tanta gente vive le caffetterie come propaggine del loro soggiorno, tanto più che ce ne dono 5 ogni metro quadrato diventando non un posto dove andare ma uno dove stare. Ho visto ragazze truccarsi, altri compravendere oggetti, altri entrare in pigiama e soprabito come se davvero fossero passati da una stanza all’altra di casa loro, anche in questo caso allargando al “fuori” in concetto di intimità domestica.
Ovviamente per noi italiani che abbiamo invece un alto senso del decoro casalingo la cosa può sembrare inconcepibile ma vi assicuro che l’abitudine anche di pochi giorni può cambiare parecchio la concezione di privacy.