giovedì 26 febbraio 2009

LI DETESTO!






















La cosa bella dell’essere disoccupato è il fatto che si ha un sacco di tempo libero da dedicare a se stessi lasciando che la mente vaghi oziosamente perdendosi in pensieri e considerazioni delle quali si potrebbe anche vivere benissimo senza. Oggi quindi, mentre mi spalmavo una maschera alla tormalina in grado di rendere la mia pelle luminosa come il faro di Rodi (almeno così mi ha detto l’estetista che me l’ha venduta), ho iniziato a tirare giù una lista delle categorie che detesto di più. Ed oltre alle solite banalità come gli assassini, i ladri di fidanzati e i commessi che durante i saldi cercano di rifilarti roba vecchia di almeno 5 stagioni, me ne sono venute alla mentre anche altre.
Ecco quindi alcune di queste.
La prima: avete presente quando mandate un messaggio con il cellulare a qualcuno e questo non vi risponde e voi ve la legate al dito e vivete nell’attesa di incontrarlo per potergli dire: “scusa, ma hai ricevuto il mio messaggio?”, con gli occhi iniettati di sangue e il labbro inferiore tremolante e ti senti dire: “Sì, ma non ho avuto tempo di risponderti”? (lo so che detta così sembro uno in cura in un centro d’igiene mentale ma non reagite anche voi così?). Ecco, è questo uno di quegli archetipi umani che mi fanno rischiare un embolo cerebrale da incazzo quando mi capita di relazionarmici.
Sarà che io garantisco risposte nell’arco di 45 secondi a chiunque e anche se sto precipitando in un burrone e con una mano cerco di aggrapparmi alle radici scoperte di qualche albero, comunque con l’altra riesco in ogni caso a digitare un messaggio e questi, manco fossero dei missionari comboniani in fuga da un villaggio messo a ferro e fuoco dalle milizie irregolari di qualche signore della guerra non possono rispondermi?
Un’altra cosa che detesto è quando mi capita di incontrare quelli che hanno il “stai tranquillo, ci penso io”, troppo facile.
Per esperienza personale preferisco piuttosto sentirmi dire: “vediamo che si può fare”. Mi sembra più realistico e meno sborone.
Recentemente mi è capitato di incontrare una persona e parlandogli della prossima pubblicazione del mio libro, mi sono sentito dire: “stai tranquillo ci penso io” con la stessa prontezza con cui solitamente si dice: “salute”, dopo uno starnuto. Già quello slancio di generosità mi aveva messo in allarme anche perché poi aveva rilanciato: “conosco questo, conosco quello! Vedrai!! “Ci mancava solo aggiungesse: “il Dalai Lama è amico mio e sono certo che sarà lieto di portarsi il tuo libro in giro per il mondo piazzandoselo davanti durante le interviste e dichiarando: “dopo aver recitato il sutra del loto, mi leggo sempre un paio di pagine di questo splendido racconto!”.
Come volevasi dimostrare, poco dopo il mago delle PR ha confermato con la propria sparizione la teoria dei rapimenti di umani da parte degli alieni.
Altra categoria che eliminerei volentieri è quella composta da quelli che dopo averti fatto nero con critiche feroci e del tutto non richieste ti dicono: "ah guarda io sono fatto così. Le cose te le dico in faccia perché sono sincero e quello che penso dico”.
Personalmente non ho mai pensato che la sincerità sia un valore e preferisco le bugie pietose alla spietata verità tant’è che chi mi conosce bene sa perfettamente che quando faccio domande del tipo: “come sto stasera?”. Devono rispondere alla velocità della luce: “Insy, stai benissimo! Non ti ho mai visto meglio!”, detto in modo convincente anche se dovessi avere la faccia tumefatta come quella di Michi Rurc in “De vrestler”.
Non sopporto neppure quelli che in fila per pagare alle casse del supermercato iniziano a sbuffare un nanosecondo dopo che la cassiera ha battuto il conto facendoti capire che ti devi spicciare. Mi mettono ansia. Io due mani ho! E con queste ci devo imbustare la spesa, tirare fuori il bancomat e digitare il codice. Se poi per caso la linea è anche un po’ lenta, ti iniziano a guardare come se a causa tua stessero perdendo la priorità acquisita per un trapianto d’organi.
Sempre restando alle casse del supermercato (che dopo le discoteche credo sia il posto dove passo più tempo), la categoria che più detesto sono quelli che entrano per comprare una sola cosa. Ma come? Non lo sapete che se non si ricomincia a spendere l’economia non si riprenderà più? E non è tanto quella la cosa che mi da fastidio quanto il fatto che ti si piazzano dietro con il loro etto di prosciutto crudo mentre tu hai un carrello colmo come se fosse stato appena annunciato che l’Italia è entrata in guerra contro la francia e loro, subdolamente, fanno di tutto per farsi notare da te sperando che tu gli dica: “beh, se ha solo questo, passi pure”. Col cazzo che ti faccio passare! Così la prossima volta t’impari a fare il taccagno! Ora aspetti!”.
Adesso non me ne vengono altri in mente ma sono sicuro che sabato mattina, alla probissima applicazione di tormalina, qualche altra categoria mi verrà sovverrà. E voi? Chi è che detestate?

lunedì 23 febbraio 2009

POVIA VS PEN: end the uinner is...














Ci sono due tipi di vittorie. La prima è quella che si ottiene per meriti oggettivi ed innegabili: nei 100 metri, il primo che taglia il traguardo ha vinto e i giudici non possono far altro che decretare un primato insindacabile.
Il secondo tipo di vittoria invece non può prescindere dal giudizio di altri e il giudicato viene premiato non solo per i suoi meriti personali ma anche per i messaggi che le sue opere portano con se.
Nel giro di 48 ore sono stati assegnati 2 premi in due manifestazioni molto diverse tra loro ma che rientrano entrambi nel secondo tipo di vittoria.
Povia conquista il secondo posto al festival di Sanremo (oltre che il misterioso premio delle radio e tv) mentre poche ore dopo, in America, Scion Pen si aggiudica l’oscar come miglio attore nell’interpretazione del politico ghei Arvei Milc.
Due risultati agli antipodi l’una dall’altra e che ci raccontano molto di più dei premi che hanno conquistato: entrambe hanno vinto non solo per il loro valore artistico ma soprattutto perché simboli di pensieri, principi e filosofie di cui sono latori.
Povia vince perché chi ha votato per lui non lo ha fatto certo per la melodia e l’arrangiamento della canzone (tutto sommato orecchiabile e piacevole), piuttosto hanno voluto sostenere il messaggio che dall’omosessualità si possa guarire come da un orribile morbo.
Penn vince perché, al di là del suo talento indiscutibile, i membri dell’accademi hanno votato e creduto nell’ideale di uguaglianza tra le persone e nel principio di inalienabilità dei diritti che permeavano la vita di Milc e il film che ne raccontava la vita.
Questa considerazione mi amareggi profondamente perché mi costringe a considerare ancora una volta che ci sono due mondi che girano a due velocità differenti e inconciliabili tra loro. Ce n’è uno ostinato nell’arroccarsi su posizioni chiuse anche solo ad un dialogo e poi c’è l’altro che si ostina fortemente a battersi per dei principi che volano più in alto delle beghe da cortile a cui assistiamo da anni in Itala, in cui ancora si discute se uno Stato debba concedere diritti ai cittadini con la stessa suscettibilità e protervia di un monarca del basso medioevo.
Se esistesse un parametro assoluto dei valori, non so quale dei delle due vittorie sarebbe più meritevole, ma essendo io un giudice assai parziale e partigiano, mi crogiolo nel pensiero stupendo di credere che la più giusta sia quella che più mi rappresenta e che ieri notte si è incarnata in un pupazzetto dorato poco più alto di trenta centimetri.

venerdì 20 febbraio 2009

CAPITANI E SCAFISTI.

E’ una giornata particolarmente bella a Roma. Fa un po’ freddo ma il cielo è terso e da dove abito io si vedono in lontananza persino le montagne di cui, nonostante siano otto anni che vivo qui, ancora ignoro i nomi.
Esco. Certo, cinque gradi in più li gradirei molto.
Ci metto non più di una canzone del mio aipod per raggiungere la direzione regionale del lavoro dove ho appuntamento con un responsabile della mia futura ex agenzia e dove, insieme ad altre due colleghe (oggi siamo in tre, le altre decine andranno nei prossimi giorni), firmerò le mie (in)volontarie dimissioni.

Solo tre mesi fa, il nostro direttore generale ci aveva convocati nella sala riunioni grande per informarci che, dopo aver fatto tagli al personale, i superstiti sarebbe potuti stare tranquilli dato che: “ora il bilancio è perfettamente risanato”.
Un mese dopo, nei bagni dell’agenzia, noto che hanno sostituito la carta per le mani mettendone una decisamente più scadente. Stanno risparmiando anche su questa: brutto presagio.
Sono nel mio ufficio. Manca ormai una settimana al Santo Natale quando ricevo una telefonata dai nostri 2 amministratori delegati che mi invitano a raggiungerli nella loro stanza. Non credo mi vogliano chiedere cosa desidero nel cesto natalizio. Ripenso alla carta sostituita nei cessi e vado, prefigurandomi cosa mi diranno.
Mi siedo davanti a loro due che sciorinano un discorso che va troppo spedito per sembrare anche solo minimamente sentito. In effetti sono un po’ deluso da loro: dopo decenni nel mondo della pubblicità, dovrebbero saper fingere sincerità un po’ meglio di come stanno facendo. “Spiacenti”, “le cose non vanno bene”, “venirti incontro”, “diverse mensilità come come incentivo”. Sono pochi i concetti che mi rimangono impressi in quei 3 minuti scarsi di monologo che recitano in perfetta sincronia come solo i migliori comici sanno fare.
Ho un sorriso di circostanza stampato sulla faccia. E, in silenzio, li giudico.
Ci stringiamo la mano ed esco.
Evidentemente quei tagli fatti solo poco tempo prima non hanno “risanato” l’agenzia come ci avevano promesso.
Mentre attraverso il corridoio che mi porta alla mia stanza, stilo una lista mentale delle cose che mi impongo di fare:
non piangere;
mantieni un comportamento dignitoso quando i tuoi colleghi ti chiederanno che cosa è successo;
taglia subito le spese superflue (ecco questo sì che sarà un problema);
non dirlo ai tuoi, si preoccuperebbero senza che questo cambi le cose;
preparati il buc dei tuoi lavori per i colloqui;
senti Fabio (il mio amico avvocato) per vedere come venire incontro alla loro “generosa” offerta di incentivo all’esodo (più ripenso a questo termine, più cresce la mia ammirazione per la capacità dei legali di trovare termini aulici per azioni discutibili).
Da quel momento iniziano a squillare i telefoni di decine di altri miei colleghi. Per due giorni. Sembra l’ennesimo remeic di “De Ring”: chi risponde è spacciato.
Alla fine, il conteggio delle vittime è pietoso come molte delle nostre storie di neodisoccupati costretti ad affrontare, non più giovanissimi, un mercato del lavoro inesistente, con mutui per la casa appena accesi, figli neonati e tutta quella banale, tragica umanità che in queste situazioni viene fuori in maniera ancora più dolorosa e straziante.

Sono passati due mesi da allora e oggi mi ritrovo al secondo piano dell’ufficio regionale del lavoro.
I funzionari fanno l’appello dei licenziati che hanno tutti uno sguardo sfuggente. Molti di loro indossano occhiali scuri, quasi fosse una colpa aver perso il lavoro, e quando sentono fare i loro nomi scattano verso la stanza, neppure fossero stati chiamati in questura a rispondere di un reato.
Siamo in 150. Oggi. Pur non essendo un genio della matematica, computo facilmente quante persone stiano perdendo il lavoro ogni mese durante questo tenebroso anno di crisi. E siamo solo a Roma.
Mentre sono lì seduto aspettando il mio turno per firmare, una ragazza accanto a me con un cappellino Liu Giò fregiato di strass, si sfoga con un’altra ragazza incontrata lì per caso ma con la quale condivide la stessa sorte: “Facessero come je pare ma me devono da il TFR. So sordi mia e me spettano. Me devono paga’”. L’altra ragazza annuisce guardando a terra.
Tutto questo mi fa pensare che qualcosa non quadra. Si sta formando una popolazione di senza lavoro, un’Italia parallela di disperati che finiranno in balia di veri e propri strozzini dell’impiego i quali, con la scusa della crisi, offriranno impieghi mal pagati forti della fame di lavoro che si sta creando.
Il mio sospetto è che tutta questa crisi non è altro che un pretesto preso al volo da molte aziende per fare piazza pulita di costosi lavoratori a tempo indeterminato da rimpiazzare con interinali meno onerosi. Poco importa se dovranno rinunciare ad una professionalità che è capitale e che solo gli anni d’esperienza garantisce.
Del resto, si sa, la qualità del lavoro in Italia non è certo una condizione fondamentale.
Aspetto ancora, seduto affianco alla porta dove tra qualche minuto entrerò e continuo a pensare.
Non sono uno che segue molto la politica, ancor meno quella estera ma in quei minuti d’attesa mi viene in mente un servizio sentito al tg una settimana fa sulle misure proposte da Obama per affrontare la crisi che sta colpendo anche la florida America. Una più di altre mi è rimasta impressa: la riduzione dei salari dei dirigenti.
E’ da quando l’ho sentita che penso ai nostri due amministratori delegati. Neppure la Fiat ne ha due e la nostra agenzia che ormai conta, quanti, forse 120 dipendenti? Ne ha ben due.
Penso ai loro stipendi da amministratori delegati. Penso a quanti colleghi, ben più bisognosi di me, avrebbero potuto salvare se, come facevano i capitani delle navi di un tempo, si fossero sacrificati licenziandosi (anche solo uno di loro) pur di tutelare chi dipendeva da loro. Penso a quanti ne avrebbero potuti aiutare anche solo rinunciando alla metà dei loro stipendi. Anche solo ad una parte. Ma non lo hanno fatto.
La prima immagine che mi viene in mente allora è quella degli scafisti senza scrupoli che, intercettati dalle guardie costiere, gettano a mare i passeggeri per evitare d’esser catturati. Sono amareggiato. Ma poi mi persuado del fatto che questi non sono più i tempi del coraggio, della coscienza, del sacrificio e della rinuncia ai privilegi acquisiti.
Il funzionario apre la porta e fa il mio nome. Entro e mentre firmo le carte che decretano da oggi il mio stato di disoccupato, giro lo sguardo verso il finestrone che tinge di luce la stanza e penso che, anche da questo purgatorio, la vista del cielo di Roma oggi è meravigliosa.

A tutti i licenziati.

mercoledì 18 febbraio 2009

SAN REMO E L'INDULGENZA PLENARIA.














Quando tra molti, molti anni morirò decrepito di vecchiaia e mi presenterò al cospetto dell’Altissimo che guardando il mio curriculum aggrotterà le sopracciglia dicendo: “bello mio, con quello che hai combinato, 300mila anni di purgatorio te li fai tutti”, ecco quale sarà la mia risposta: “sì, ma io mi sono visto la prima puntata del Festiva Di San Remo del 2009!”
“Pure tu?”, replicherà. “E va bene. Allora fatti solo 6 mesi che il tuo calvario te lo sei già bello che scontato”.
Personalmente non vedevo il Festival dai tempi in cui Al Bano cantava con la scoppiettante Romina ma mi sono detto, proviamo, magari è un bello spettacolo (che si può leggere anche con un semplice: tanto non ho nient’altro da fare visto che anche avessi voluto giocare a Risico non avrei trovato nessuno con cui farlo visto che erano tutti piantati su rai uno-o almeno tutti quelli che conosco io).
A meno che un attacco di meningite non ti abbia colpito nel 2008 lasciandoti in coma fino a ieri, era praticamente impossibile non sapere già tutto della serata: presentatori, abiti, valletti, canzoni e Povia.
Mi rendo conto che dopo 70 anni di festival, le idee per aprire la chermes inizino a scarseggiare, ma mi è sembrato un po’ presuntuoso partire con un video che mostra le origini ancestrali della musica che si evolvono fino ad arrivare a San Remo. Insomma si passa dai canti gregoriani alle sinfonie di Betoven, ai Bitols e poi via, via fino ad arrivare ad una manifestazione che ti mette in campo i Gemelli diversi e Pupo. Boh a me sembra un po’ sminuente tanto quanto parlare dell’evoluzione dell’ingegno umano attraverso Dante, Michelangelo, Ainstai per arrivare poi a mostrare come frutti di tanto progresso personaggi come Diaco o Ferrara.
Del Noce ha già messo le mani avanti dicendo che quest’anno o il festival fa ascolti da diretta tv del crollo delle torri gemelle o st’altr’anno lo sostituisce con lo zecchino d’oro. Con queste premesse Paolo Bonolis ha schierato Mina (che ormai appare solo in video, preceduta da profumo di fresie e che canta tutto sempre allo stesso modo, Puccini compreso, arrangiato in stile Sesar Palas di Las Vegas), segretari dell’Onu, Benigni e avrebbe portato persino l’abominevole uomo delle nevi se non avesse già firmato un contratto in esclusiva per Voiager. Nel complesso quindi sembrava più un Teleton che un festival di canzonette.
Bonolis quel milione di euro comunque se lo è guadagnato tutti perché tranne passare lo straccio per terra tra un blocco e l’altro, poi ha fatto tutto lui compreso badare a quella ritardata, perché di questo si tratta, della valletta di quest’anno. Mi sfugge del tutto il criterio con cui sia stata scelta Alessia Piovan, una che ha fatto la morta in stile laura palmer ne “La ragazza del lago”, un personaggio evidentemente a cui si sente ancora molto legata visto che del cadavere ha mantenuto la verv e la presenza scenica. In tutta la serata non fa altro che sbagliare in continuazione e legge male i nomi di artisti e direttori d'orchestra nonostante le abbiano piazzato davanti un gobbo grosso come un titano. La sua presenza è più imbarazzante di una barzelletta di berusconi sui campi di concentramento ad una riunione del G8 in Germania.
Tornado a Bonolis: capisco che ogni artista porta la sua cifra in un programma ma per i soldi che ha preso qualcosa che sia diverso dai soliti teatrini con laurenti, no? A tratti sembra lo spot della Lavazza!
Il festival però non è solo polemica ma anche musica e allora parliamo un po’ di questi artisti. La prima a scendere è Dolcenera. Io me la ricordo panchettona mentre canta al Mammamia a Torre del Lago (ndr: rinomata discoteca sul mare punto di ritrovo delle finocchie del centro nord) e la ritrovo in stile Ciarlot di Secs end de siti. Non mi sembra una grande persormans ed più facile mi entri in testa la composizione chimiche del cloruro di potassio che questa canzone.
A ruota, dopo di lei, arriva Fausto Leali (che scopro con piacere essere ancora vivo) che canta una bella canzone su come è difficile crescere un figlio che non ti parla, non ti saluta, ti taglia fuori dalla sua vita e ti ruba anche i soli dal portamonete (fausto: ma chi hai allevato? Il libanese de la banda della magliana?!).
Mi bastano già queste prime due per chiedermi come potessero essere le canzoni eliminate perché se queste secondo la commissioni sono buone, mi viene da pensare che le altre fosse interpretate con rutti al chinotto e suonate con coperchi di pentole, oltretutto i brani dovrebbero essere spendibili in radio e dovrebbero stimolare il mercato. E’ per questo che è stata selezionata una giuria di 300 disgraziati sbattuti in piccionaia, lassù in alto, nlla galleria più lontana dove l’acustica dal palco arriva ritardata di almeno 5 secondo e composta da persone tra il 18 e i 70 anni, gli ultimi dei quali, si sa, sono quelli che solitamente affollano i botteghini quando si tratta di comprare biglietti per andare a sentire Marco Carta. Una giuria dalla quale è stata tagliata fuori la fascia ander 18 che è davvero quella composta dagli “ard baier” di musica.

Continuando con gli artisti, passa anche Tricarico con una canzone dedicata alla consorte ma a me mi pare “per fare un albero, ci vuole un fiore” e il testo è stato scritto con un codice cifrato che forse conosce solo la moglie.
Poi arriva la divina Patti Pravo: “E io verrò un giorno là”, un’amore che sopravvive alla vita. I testi sono di Annamaria Galanti, la medium che parla con gli antichi (se non la conoscete, cercatevela su iutub e capirete). Quello che mi piace di lei è che non ha ceduto al ricatto della chirurgia estetica e della ricerca disperata della giovinezza: la sua pelle filigranata infatti è merito di una vita vissuta secondo i dettami del feng sciui.
Mentre canta mi alzo per chiudere la finestra perché sento il sibilo di uno spiffero di vento salvo poi accorgermi che il rumore viene dalla televisione. Patti non canta, semmai sibila e stona pure. E pensare che le note sono solo 7 ma non ne azzecca neppure una per errore.
Ammorbato faccio un salto su la7 che mostra i denti affrontando di petto il colosso Rai con una replica di relic anter.
Torno al primo canale, come lo chiamava mio nonno, e mi ritrovo un collegamento con il presidente dell’Assemblea generale dell’Onu ma sono dovuto andare su gugol per essere sicuro che quel mammozzone dall’espressione impacciata non fosse un imitatore di “Mai dire…”.
A quanto pare lui aveva portato una canzone bellissima in duetto con Cofi Annnan ma siccome un nero già ce l’avevano (Iussun Dur che canta con Paolo Belli e Pupo che sembrano la versione Bignami del cast di Ui ar de uorld) ha ripiegato sulla solita manfrina su i cambiamenti politici del mondo, della collaborazione internazionale e sulle nuove piastre in ceramica della Rovente.
Masini canta l’Italia. Non vorrei fare il menagramo ma l’ultimo che l’ha celebrata con una canzone era la buon'anima di Reitano in più Masini si dice porti pure un po’ sfiga. Io non andrei alla ricevitoria del superenalotto mentre mandano sta canzone alla radio.
Arriva il momento de modello bono che ogni sera farà da valletto e parte il triccheballacche con Bonolis che finge di non sapere l’inglese quando invece lui lo parla meglio della Regina D’Inghilterra visto che ha pure la ex moglie americana e i figli vivono in usa ma lui deve fare il nazional-popolare fingendo una lingua maccheronica in stile Sordi Vs le Chesler nel mitico studio uno.
Se questo è il meglio che posso aspettarmi da lui meglio una replica de “I 5 del quinto piano” con quella sagoma di Gianfilippo.
La presenza di Laurenti poi oscilla tra l’irritante è l’inutile e nessuno mi toglie dalla testa che il musicista debba avere dei filmini compromettenti di bonolis vestito da donna che sniffa cocaina insieme a qualche rampollo di industriali italiani sennò non si spiega il motivo per cui se lo porta sempre appresso.
Continua la sequela di cantanti.
Renga: pucciniano. Pare “nessun dorma” incidentato con il gingol della Lidel. Mi verrebbe da chiedere alla Maionchi se questo brano ha una collocazione commerciale al di fuori dei té letterari in casa di Michi Gioia.
i gemelli diversi si sono ingoiati Cher di “Do you belive”!! Sono talmente avanti (come direbbe Federica del gf) che dicono anche stronza nel testo della canzone.
Segue albano e in sovrimpressione appare una scritta: se preferisci un alluvione, schiaccia il tasto * altrimenti resta in ascolto di Al Bano. pare le linee a quel punto si siano intasate.
E’ la volta di vladinmir Luxuria che ha preso come nome d’arte nichi nicolalai. La sua è la tipica canzone da cenone di capodanno col conto alla rovescia in sottofondo.
E poi entra il fantastico Benigni che ormai da quando è in fase ascetico-illuminata ti parla dello spirito, della luce e dell’anima che emana anche la cacca dei cani.
Dopo 20 minuti di monologo su Berlusconi mi chiedo: a chi si deve mandare l'sms per eliminarlo subito?
Poi mi devo rimangiare tutto. Mi spiazza parlando del caso Povia, o meglio di queste avvilenti polemiche che hanno accompagnato l’arrivo di questa canzone. Il pubblico si zittisce. Mentre lo sento parlare d’amore e intolleranza penso a quando una volta che hai spogliato una questione di tutti gli ideologismi, le sovrastrutture e le convenzioni, quello che resta è la verità. Pura. Semplice. Incontrovertibile.
Sono certo che non basta un intervento, seppure tanto potente come questo, per far cambiare idea ai rozzi e agli ignoranti, ma le sue parole sono un balsamo per lo spirito che ci aiuta a ricordare che se c'è qualcuno che ha il cervello invertito non siamo certo noi.
Dopo un discorso del genere (che vi consiglio di cercare anche questo su iutiub) Povia dovrebbe raccogliere quel po’ di dignità che spero gli sia rimasta, andandosi ad aprire un banco di verdura al mercato.
Ma dopo un po’ eccolo invece salire sul palco. La canzone ha il ritmo di t’appartengo di Ambra ma non credo la balleremo con lo stesso trasporto in discoteca. Alla fine del brano Grillino chiede la parola e segna un fantastico autogol leggendo l’sms di un suo amico il cui compagno è scomparso da poco: ma che c’entra? Perché ha dovuto aggiungere qualcosa quando avevamo ancora nelle orecchie e nel cuore il sublime intervento di Benigni?
Concludo con un terribile presagio in stile Cassandra: temo che “Luca era ghei” venderà bene e non perché è un bel brano ma perché diventerà simbolo di uno scontro culturale che verrà acquistato e brandito da quanti pensano che essere omosessuali sia un male curabile e penso: che fine misera fa la musica quando diventa strumento di contrasto politico invece che di gioia per l’anima.

in collaborazione con: LORD

venerdì 13 febbraio 2009

DOPO UN ANNO, CONFERMO E SOTTOSCRIVO.

la cosa bella di aver perso il lavoro è la possibilità di vedere i programmi televisivi del pomeriggio. Ora non ricordo se fosse su uno dei conteniori di rai1, rai2 o la melevisione di rai3 ma, uscita ormai di scena Eluana, oggi si parlava solo di San Valentino. Tra gli esimii invitati ad una trasmissione a caso oggi c'era il caro Daniele Interrante (per una notte con il quale sarei ben disposto persino a sentire le sue risse tra congiuntivi, indicativi e condizionali: oh, non ne azzecca una!)che dichiarava con sfoggio di dialettica ed originalita che "non fa regali alla ragazza A san Valentino". Sarebbe scontato. Preerisce sorprenderla con regali e cioccolatini durante tutto il resto dell'anno.
Daltronde è già bello, fosse stato anche intelligente sarebbe stato da eliminare fisicamente. Sentendolo quindi, sono andato a rileggere il post che buttai giù su San Valentino lo scorso anno e, nonostante il tempo passato, confermo ogni singola parola.
Quindi, scusate la mancanza di originalità ma ecco quanto scrissi esattamente 365 giorni fa.

Sono pronto. Del resto la risposta me la sono preparata da tempo. Anni direi. Anche perché è sempre la stessa.
Infatti vuoi che entro stasera non trovo qualche iconoclasta da strapazzo pronto ad aprirmi gli occhi rivelandomi che San Valentino non è che una festa consumistica e commerciale, inventata come il Natale per spillare soldi e per far arricchire fiorai e pasticceri?
“Embe’!?”
Ma chi se ne frega se l’occasione per sentirsi dire Ti Amo capita solo una volta l’anno? E’ comunque sempre meglio di niente.
Mio padre era uno di quelli che diceva, come tanti, che era scontato e banale celebrare San Valentino, che l’amore andava dimostrato e non detto e che chi si profondeva in slanci amorosi lo faceva solo per farsi perdonare magagne e tradimenti.
Io invece che in comune con mio padre ho solo mio fratello, San Valentino non solo lo festeggio ma lo pretendo, con tutti i crismi e le baracconate, con i lumi di candela e i cioccolatini. Con i regali incartati con nastri rosa dozzinali, con il ristorante affollato di coppie che devi prenotare a ferragosto, con l’anello immerso nel bicchiere di fragolina, con i pachistani che vendono rose nei ristoranti e con la scopata di rito a fine serata.
Ho sempre pensato che San Valentino, il Natale, i compleanni fossero che delle occasioni suppletive per ribadire sentimenti che già proviamo, ed avere un occasione in più per esprimerli certo non danneggia la salute.
Quindi, un consiglio: se odiate San Valentino perché avete beccato il vostro ragazzo al telefono con un altro mentre gli diceva “si, ti amo” e voi eravate, non visti, dietro di lui, se avete sbavato per anni appresso a qualcuno che invece non vi si filava neppure se vi cospargevate di trementina e vi davate fuoco come un monaco tibetano, se vi hanno mollato perché “vi amava troppo” e questa cosa non sapeva gestirla e lo spaventava (salvo poi vederlo uscire anche con i sanpietrini delle strade), fate una bella cosa, andateli a scovare e prendeteli a calci in culo loro, non il povero San Valentino.

martedì 10 febbraio 2009

PER ELUANA.

Da ieri sera ho deciso che il mio palinsesto televisivo per i prossimi giorni si limiterà solo a Grande Fratello o X Facttor pur di evitare il disgusto che mi causerebbe sentire parlare ancora del caso Eluana. Sono passate poche ore dalla sua morte e già si vedono avvoltoi gettarsi in picchiata sul suo cadavere.
Provo un profondo rammarico per quanti, politici, prelati o semplici isterici si stanno arrogando il diritto di salire in cattedra per giudicare un dolore che nessuno di loro ha mai sperimentato e che per questo rende le loro posizioni patetiche e perverse in un momento come questo in cui l’unico sentimento da provare dovrebbe essere quello di pietà per i morti ma ancora di più dovrebbe essere compassione per i vivi come i familiari di Eluana. Se esiste un’anima, che la sua riposi in pace contrariamente a quelle di quanto stanno già strumentalizzando il suo misero caso.

venerdì 6 febbraio 2009

I DRAMMI FAMILIARI DI ALESSANRA MUSSOLINI


L’Espresso on line oggi ha pubblicato la versione politica di uno dei giochi più famosi della storia: “Indovina chi?”. Solo che come sottotitolo in questa variante va aggiunto: “è più assenteista tra gli europarlamentari?”.
Stacco.
L’altro giorno a “l’Italia in diretta” si parlava di un argomento nuovo: l’omosessualità, Povia, le guarigioni dalla frociaggine e la connessione tra prenderlo in berta e il disboscamento della foresta amazzonica. Prendendo spunto dalle illuminanti dichiarazioni di Al Bano sull’omosessualità, è intervenuta Alessandra Mussolini che dichiara “sarebbe una tragedia se avessi un figlio gay o tarallo (e si difende dall’ammonimento di Grillini replicando che lo dice in tono scherzoso! Quindi io da oggi a lei potrei darle della “puttana” visto che anche questo è un sinonimo che molti maschi adoperano per definire le donne. Tanto, si dice per ridere!!).
La vera tragedia però, e qui unisco le due notizie, è il fatto che giocando a “Indovina chi fa sega all’europarlamento?” di L’Espresso, scopro che Alessandra è la deputata europea italiana più assenteista (dopo una par suo di AN la quale evidentemente può presenziare solo 34 volte su 100 causa impegni dovuti alla preparazione delle conserve di pomodori e la raccolta delle olive).
Immagino infatti che la messa in piega a via del Babbuino o partecipare a trasmissioni del genere richiedano una sua presenza quasi costante in patria.
Del resto lei fa politica attiva quando va ad un talk show del pomeriggio dove solitamente si parla delle tette di Cristina del Grande Fratello.
Infondo immagino che per lei sia un impegno morale e politico rappresentare il suo elettorato parlando ti temi caldi quali il gay pride e la sovraesposizione della cultura omosessuale quando mezza Italia, me compreso, ha perso il lavoro e gliene sbatte un piffero della tragedia familiare in casa Mussolini qualora a uno dei suoi figli avesse le chiappe chiacchierate.
Non mi lancerò ora in ulteriori critiche nonostante sarebbero per me succulenti come un fritto misto alla romana. Ma mi limito solamente a chiedermi: ma questa, invece di andare a fare la vaiassa napoletana da Sposini, perché non pensa a fare ciò per cui noi la strapaghiamo al parlamento europeo? (oddio, ora che ci penso, forse fa meno danni seduta sullo sgabello de L’Italia in diretta!)

tra le 18 e le 20 appizzate l'orecchio.











prendetevi un permesso al lavoro e inventate una scusa con la vostra analista per rimandare la seduta: stasera sono da La Pina a Radio DJ dove anche io dopo Povia, Al Bano, la Mussolini, Bin Laden e Leonella, la cassiera della GS sotto casa mia dichiarerò che se mio figlio fosse ghei sarebbe una tragedia!!!
ECCO L'INTERVENTO DA LA PINA E DIEGO. A CHI INTERESSA, LO TROVA QUI. GRAZIE ANDREA.
http://www.sendspace.com/file/3d2gbu

giovedì 5 febbraio 2009

CONSIGLI PER GLI ACQUISTI.

Va bene, 16euro e 50 è un signor prezzo e mi rendo conto che in questo periodo di crisi non sono proprio pochissimi. Capisco anche che a scrivere il libro sono io e non un nobel della letteratura ma è pur vero che con il mio libro o meglio, con la sua copertina si possono fare un sacco di cose utilissime e, se ben impiegato, vi farà risparmiare nel tempo un sacco di soldi.
Ve ne elenco solo alcune:

come vedete dalla foto è utilissimo per dare luce alle vostre piante da esterno costrette invece al crepuscolo dei vostri appartamenti aiutandovi così a farle sopravvivere senza spendere per comprarne di nuove (funziona anche con quelle di plastica ma, attenzione, se sopraesposte rischiano di squagliarsi);
supponete di essere inseguiti da un gruppo di lesbiche inferocite perché vi hanno sentito dire che il calcio è uno sport noioso: niente di più facile, basterà usare la copertina glitterata del mio libro per accecarle con il riflesso della luce, risparmiando così su tinture di iodio e cerotti altrimenti necessari per curare ferite ed abrasioni che certamente vi procurereste;
il mio libro è altresì utilissimo in spiaggia per abbronzarsi il collo molto meglio di una qualsiasi crema abbronzante che, a meno di sottomarche cancerogene, vi costa minimo minimo 20 euro a boccetta;
e che dire della sua funzione scalda vivande? Sfruttando i raggi solari la copertina si riscalda fino a raggiungere i 140°, ideale anche per grigliate e pizze tra amici. E ve lo devo dire io oggi quanto gas e corrente siano aumentate?
E adesso, venitemi a dire che il mio libro costa troppo!?

martedì 3 febbraio 2009

UN ULTIMO STRALCIO DEL LIBRO PRIMA DELL'USCITA DI DOMANI.

Ecco un ultimo stralcio del libro prima della pubblicazione di domani.


Se non accendono le luci, sfumano la musica e iniziano a passare lo straccio sulla pista da ballo, io non me ne vado di sicuro e solitamente, anche se ho ballato fino alle 4 di mattina, massimo alle 10 sono già in piedi. Certo, ho il viso che sembra la carcassa di un piccione schiacciato da una macchina, dalla bocca si sparge nell’aria l’odore di una distilleria, ma riesco lo stesso a trascinarmi verso una tazza di caffè.
Una mattina, aprendo la porta della cucina, vengo investito dalla luce del sole che entra dalla finestra. Davanti si staglia una sagoma controluce che sembra una visione ultraterrena, ma che in realtà è semplicemente Costanza con in mano un intruglio equo e solidale dalle misteriose proprietà lassative fatto da non so quale tribù della foresta cambogiana. Ha sempre una pelle distesa e riposata e questo rende il contrasto con la mia ancora più avvilente.
«Hai fatto tardi?»
Mugugno un assenso mentre barcollo verso la sedia e mi ci schianto sopra.
«Hai conosciuto qualcuno?» mi chiede sorseggiando quella sua specie di fango.
Ci rifletto qualche istante e sento le meningi contrarsi nello sforzo di rimettere insieme brandelli di memoria:
«Sì!». Mi verso il fondo di caffè avanzato dalla macchinetta della sera precedente. Come avessi azionato il bocchettone di un idrante, la memoria della sera prima scorre rapidamente lungo i neuroni e ricordo tutto. Tutto tranne il nome del tipo.
Inizio il racconto quando entra Giorgio che, sempre pieno di brio sin dal primo mattino, fa un cenno con il capo e comincia a prepararsi la colazione.
«Be’, allora?», incalza Costanza.
Bevo un sorso di caffè e attacco: «Ragazzi: pazzesco. Ho conosciuto uno davvero carino. Insomma, com’è come non è, finiamo per baciarci».
«Ma dài, che novità.» Giorgio: poche parole e sempre carine.
È vero che da qualche mese mi sono piuttosto lasciato andare a uno stile di vita che io chiamo disinibito e che gli altri definiscono «da mignotta».
«Alla fine ci appartiamo a pomiciare dietro la tenda che copre l’uscita di sicurezza del Gloss Disco Frocio Club. Questo mi sbottona i pantaloni, mi gira e fa una cosa mai fatta prima.»
«Ti chiede il nome?»
Lo ignoro con aria superiore.
«No, mi gira e inizia a leccarmi il culo.»
«Rimming» fa Gio’, che ha il naso nella tazza dei cereali come se ci fosse caduta una lente dentro e la stesse cercando.
«Cosa?» chiede Costanza.
«Leccare il buco del culo. Si chiama rimming.»
«Ma che, davvero?» chiede stupita. Poi a me: «E tu te lo sei fatto leccare?».
«Lì per lì sono rimasto un po’ imbarazzato. Ma, oh, non sapete che bello. E poi lo ha fatto per un sacco di tempo. Una sensazione di fresco, davvero piacevole. La sento ancora, dietro. Decisamente fico.»
Dall’espressione di Costanza mi rendo conto che parlare di buco di culo leccato mentre si fa colazione non è certo il massimo e decido quindi di troncarla lì. Vado in bagno a fare una doccia prima di andare in biblioteca a studiare.
Sarà la suggestione, ma ancora posso sentire la lingua di quel ragazzo accarezzarmi il sedere. Entro nella vasca. Apro l’acqua che mi bagna il corpo. Strofino la pelle con la mano insaponata poi passo dietro. Sento qualcosa di strano attaccato ai peli del mio fondoschiena. Proprio nell’incavo delle natiche. Aggrovigliata in quella selva di peli che sono strenua testimonianza del fatto che, nonostante abbia i gusti delle femmine, tricologicamente parlando non posso che appartenere alla degna discendenza dell’uomo di Neanderthal, c’è una cosa molliccia.
L’urlo di orrore che segue scuote tutta la casa, fino a svegliare Mario che non si è mai alzato dal letto prima delle 2 del pomeriggio da quando è sbarcato a Roma.


lunedì 2 febbraio 2009

Per sapere un po' che sapore ha.

Come ormai anche le spore primordiali scoperte su Marte sanno, dopodomani esce 'sto benedetto libro.
Ma un assaggino mi sembra doveroso offrirvelo.
Ecco allora un paio di stralci a caso del racconto sperando vi piacciano.


Ho letto in una rivista che i bambini nati con il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo sviluppano in età adulta una propensione al suicidio. Sempre nello stesso articolo veniva riportata un’altra teoria, partorita, immagino, dallo stesso genio della psicologia prenatale: i neonati espulsi con parto cesareo sono più arrendevoli nei confronti della vita visto che non hanno affrontato la dura prova dell’uscita naturale dal grembo materno.
Dunque io dovrei avere la stessa aspettativa di vita di un kamikaze di Al Qaeda, visto che sono nato con un parto cesareo per sventare la possibilità che morissi asfissiato. Infatti osservando le radiografie dell’epoca, è evidente il mio disperato tentativo di tornare subito al Creatore, soffocandomi con quella specie di cappio, piuttosto che passare per quella fessura chiamata vagina.
Lo voglio chiarire subito: io non ho mai sfiorato la patatina di una donna neppure con un dito. Figuriamoci passarci attraverso.


Il primo anno di Sociologia mi metto in testa di frequentare tutti i corsi: sono affascinato da insegnamenti come Antropologia Culturale, Sociolinguistica, Semiotica o Psicologia Sociale e non ne voglio perdere neppure uno. Riesco addirittura a essere in due aule diverse nello stesso tempo (esperimento che prima di me è riuscito solo al famoso sant’Antonio da Padova con il suo celebre numero dell’ubiquità).
C’è solo un piccolo particolare che però non mi fa godere a pieno la mia scelta didattica: il fatto che il 99 per cento degli studenti siano donne. Questo nel manifesto degli studi mica lo avevano detto, disonesti. Altrimenti, a costo di impiegarci quindici anni, mi sarei iscritto a Ingegneria dove le donne sono talmente poche che la pupazzetta con la gonna inchiodata sulla porta del bagno delle femmine è emigrata alla facoltà di Pedagogia, con la speranza di trovare lavoro almeno lì.
Insomma, per una cosa del genere uno potrebbe anche trascinare il rettorato in tribunale con l’accusa di frode o terrorismo. Ma come: io vengo dalla provincia, puro come un giglio, sperando finalmente all’università di trovare dei gay come me con cui confrontarmi (in senso biblico) e invece? Mi ritrovo donne ovunque: a lezione, nelle toilette, in segreteria, tra i libri della biblioteca.
[…]
Le vedo arrivare a frotte: sciatte, senza trucco, il mollettone con i fiori di plastica tra i capelli e infagottate nei loro maglioni infeltriti tempestati di quei pallini che fa la lana di cattiva qualità. Si piazzano sui banchi a registrare le lezioni sui nastri, prendendo contemporaneamente appunti come le stenografe dei tribunali. Mi sono sempre chiesto: ma a che serve, se stai già registrando la lezione? Cos’è, la sindrome della secchiona? Hai paura che la Madonna ti punisca per aver avuto un pensiero impuro passando davanti ai senegalesi che vendono rane di legno sul viale dell’Università e che per questo ti si smagnetizzi il nastro?
Molte di loro sono figlie della provincia più dolorosa e di confine. Quella provincia fatta di scatoloni spediti dai genitori nelle stive delle corriere interregionali colmi di pasta, conserve di pomodoro, soppressate e peperoni sott’olio che loro, una volta al mese, vanno a recuperare alla stazione dei pullman di piazzale Tiburtino.
A me, che invece sono scappato dal paese caricando di esasperate aspettative la Grande Città, suscitano un nobile senso di disprezzo. Sono a Roma proprio per togliermi di dosso l’odore di quel mondo piccolo piccolo. E gli scatoloni non mi raggiungeranno, nemmeno a
bordo di un pullman. Io corro più veloce.

DOMANI PUBBLICO QUALCHE ALTRO PEZZETTO...