lunedì 24 ottobre 2011

GRANDE FRATELLO 12. PRIMA E ULTIMA PUNTATA (PER ME).


La prima puntata del Grande Fratello è come un negozio tutto a un euro: sai che tanto non ci comprerai nulla perché sono tutte porcherie ma un giro te lo fai lo stesso.
Non voglio certo fare lo schizzinoso, non sono di quelli che passano le serate leggendo un buon libro o andando a vedere una maratona teatrale dedicata a Ibsen e se c’è una troiata mediatica nel raggio di 300 canali, state sicuri che mi schianto sul divano e me lo vedo io ma il GF è davvero inaffrontabile.
Alla Marcuzzi che ha avuto un figlio 20 minuti fa o le hanno stretto la cintura con una morsa industriale o glilo hanno tirato fuori al 4 mese per evitare di prender peso.
Piccola mensione sul cast: anche quest’anno un a conduzione tutta al femminile con Marcuzzi e Signorini.
Ma passiamo ai veri protagonisti del programma (si, oltre agli sponsor): i concorrenti.

Come al solito per farli entrare hanno escogitato delle strategie televisive comprensibili come le istruzioni di Risiko in lingua Pali per cui non si capisce chi entra, chi esce, chi rimane in bilico e chi finisce a Uomini&Donne. Il totale di concorrenti comunque già si sa, sarà pari a quello usato per le scene di massa di Ben Hur.
Il primo è Danilo, 22 anni, pugliese, barista: bono ma intelligente come un pugno si sale grosso perché è il primo a entrare e piomba in casa dicendo “buona sera” ai mobili. Se non inizia a farsi 12 docce al giorno senza chiudere la porta è meglio che esca subito.

La seconda a entrare è Adriana 21 anni, portatrice sana del secondo di due neuroni necessari per creare una sinapsi con quello di Danilo.


Man mano che entrano mi sorge il dubbio che gli autori impongano ai concorrenti di esagerare perché questi evidentemente vivono nelle roulotte dal momento che quando entrano, hanno la reazione dei bolscevichi che irruppero nel palazzo d’inverno a Sanpietroburgo quando videro i decori in oro zecchino delle sale.

Chicca delle 22: Signorini si lamenta perché i concorrenti usano troppo “Madonna” come intercala ed è un po’ irrispettoso per uno morigerato come lui. Sapesse la madonna cosa ne pensa invece quando lo vede a letto fare all’amore con qualche ragazzo comodamente disteso a 4 zampe o delle evoluzioni erotiche del suo padrone. Ma lasciamo correre...

Gaia 23 anni da Roma. Cubista, ricostruttrice di unghie, razza immagine, insomma Rita Levi Montalcini.

Poi arriva il momento di Rudolf, 23 anni rugbista. Un po’ genere attore della Colt (ndr: una casa di produzione di porno gay dove gli attori hanno i muscoli anche sulle caccole). Uno di quelli che prenderesti a colpi di boc****i fino a fargli perdere conoscenza.
Entra anche Valeria, 32 anni studia medicina e fa parte del Mensa, un gruppo per cervelloni: 160 di QI quindi adesso in totale la case ha uno score di 161 (certo però che a 32 anni ancora studentessa…mah).

Luca da Eboli. Molto bono anche lui perché si sa, i concorrenti devono rappresentare gli italiani medi che secondo gli autori devono essere un popolo composto da santi, navigatori e modelli di Aussiebum. Sarà che fa il biologo marino ma a me sa tanto di "pesce" infatti le indiscrezioni della rete lo danno per modello (appunto) e presunto ex amante di Valerio Pino, ballerino di Amici passato poi ai reality spagnoli.

Mario 20 anni di Brindisi: altro modello da farti tremare i polsi ma a questo punti io sono un po’ assuefatto e bagnato.

Entra Floriana, 22 anni di Potenza che ammette di essere 10 gradini sopra a tutte le altre donne che la faranno quindi secca con una congiura entro la fine tg notte.

Entra anche un principe indiano che cerca moglie al GF. Sicuramente amico di Gheddafi che gli avrà detto: "Dai vai in Italia che li la fica te la tirano appresso appena vedono una collanina di Pomellato".
Ma si scopre dopo qualche nanosecondo che sto povero disgraziato è di Bergamo fa il contadino, non sa neppure dove sia l’India e tra lui e la zappa che brandisce non c’è differenza.

Verso mezzanotte entra anche Claudia, una mamma che ha fatto il programma su Sky “Burlesque”, ora fa il “Grande Fratello” e se glielo chiedono anche il meteo su TeleNorba, insomma tutto va bene meno che stare a casa appresso al figlio.

In coppia: Chiara, milanese, 22 anni, amante dello shopping che non so al livello previdenziale come si inquadra professionalmente e che ha come motto “vivo per divertirmi” e Leone Guicciardini discendente della nobile casata ormai caduto in disgrazia e costretto a imbottire panini in un bar. Quando si dice la legge del contrappasso descritto nella Commedia dall'amico di famiglia Dante Alighieri.

Questa in spiccioli la rosa dei concorrenti. Come potete vedere hanno puntato molto sull’estetica come mai prima ma si sa la gente si appassiona più a un culo e un pettorale che a una storia strappalacrime e siccome Mediaset Premium non se lo compra nessuno quest’anno si sono detti: “tocca fare cassa!”. Io a questo punto però mi tengo Sky e mi affitto su internet i film on demand della Kazan Production.

giovedì 13 ottobre 2011

EVVIVA GLI SPOSI.




Cosa fa di una popolo una società civile? Chiedetelo a un giurista e vi dirà leggi per tutelare le persone, a un ingegnere la capacità di costruire edifici sempre più alti, a un medico la possibilità di curare quanti più mali possibili. Sembrano cose molto diverse tra loro ma hanno tutti una radice comune: la realizzazione del meglio possibile che, per le persone comuni come noi, può tranquillamente chiamarsi felicità.
Credo che qualche filosofo francese, verso la fine del ‘700 abbia detto qualcosa tipo: “ogni essere umano ha diritto ad essere felice” e che le persone devono essere messe in condizione, in una società che voglia essere civile, di raggiungere questa felicità.
Dopo oltre due secoli, in Italia questa aspirazione continua a essere frustrata.
A settembre Alessandro e Eduardo, sono riusciti però a raggiungere il loro obiettivo sebbene, per farlo, hanno dovuto accettare la più avvilente delle condizioni: espatriare.
Alessandro e Eduardo oggi sono finalmente sposati, non importa se lo intendiate in maniera laica o religiosa, quelli sono solo dettagli perché, alla fine della fiera, è l’intenzione con la quale facciamo le cose che gli da dignità e valore, al di la degli aggettivi.
Ieri è andato in onda alle Iene un bellissimo servizio fatto da Angela Rafanelli sul loro matrimonio irlandese (sì, persino nella cristianissima terra d’Irlanda si può).
A quanto trasmesso c’è poco altro da aggiungere perché dice già tutto benissimo il loro reportage.
Vi consiglio di vederlo e farlo vedere perché è emozionante, vero, diverso come ci si aspetti che sia giustamente un matrimonio tra due uomini dove il concetto di differente non coincide, come pensa il nostro parlamento, con perverso, e perché da coraggio a chi spera che le cose cambino, perché dimostra che un’idea può diventare felicità concreta e perché ci aiuta a credere ancora che la perseveranza è la soluzione a tutto questo buio politico.

mercoledì 12 ottobre 2011

METTI UNA MATTINA IN PALESTRA...

La mia vecchia palestra, la Fitness First, era talmente finocchia che davanti alla sauna distribuivano i preservativi con lubrificante.
A marzo, dopo 10 anni passati, 10 chili persi (e ripresi e ripersi) e 10 “fidanzati” spariti (quando parlo di fidanzati le “ ” sono d’obbligo), la abbandono spingendomi verso un’altra di periferia, più grande, più vicina e soprattutto più economica. Mi aspettavo di ritrovarmi in una specie di tana delle tigri e invece dopo neppure una settimana mi sono accorto di essere capitato nel serraglio di un sultano. E’ vero, i gay sono ovunque, non esistono palestre “gay free” ma questa ha una densità di omosessuali che vedi solo a Barcellona, durante in Circuit.
Io non sono di quelli che dicono “o Dio, tutti questi gay in sala non li sopporto proprio, tutti che ti guardano, tutti che ti cercano, tutti che ti vogliono”. Di tutto soffro meno che della sindrome dell’erotomane che miete invece tante vittime tra i gay convinti che tutti bramino le loro attenzioni o il loro corpo. A me non mi cerca nessuno, non mi brama nessuno, nessuno soprattutto si sfida a una maratona di panca piana per uscire con me quindi per quanto mi riguarda allenarmi in un ambiente gay non mi cambia le cose più che se mi allenassi in un convento di suore Pallottine.
Detto questo una mattina di qualche settimana fa mi è capitato di incrociare in sala un tipo molto attraente.
Io lo guardo, lui mi guarda, io lo riguardo, lui mi riguarda e in questo palleggio di bulbi oculari non mi è chiaro se lo fa perché gli interesso o semplicemente monitora dove mi trovi per allontanarsi il più possibile da me.
Il suo viso mi è del tutto nuovo il che può significare:
1- che è etero;
2- che non è di Roma, anzi, che non è proprio italiano;
3- che si è appena svegliato da un coma di 25 anni;
altrimenti con la memoria fotografica che mi ritrovo lo avrei riconosciuto.
Io non ho affatto il gaydar. Ho dovuto sentire la testimonianza sconcertata di un ragazzo che aveva fatto sesso con Leopoldo Mastelloni ai tempi dell’unità d’Italia per convincermi che il suo atteggiamento effeminato non era dovuto a una posa teatrale ma perché effettivamente gli piacevano i maschi. Quindi figuriamoci se posso capire se questo ragazzo della palestra lo è.
La settimana successiva (ovviamente lui va solo il sabato mattina, mai che le cose possano essere minimamente semplici)
Mi presento allo stesso posto alla stessa ora. Lui c’è! Ricominciamo con questo gioco di sguardi.
Se avessi un paio di Negroni in corpo non ci sarebbero problemi ma alle 11 del mattino è già tanto se riesco a chiedere il giornale al giornalaio, figuriamoci attaccare bottone. Pure lui , a onor del vero, non accenna ad un avvicinamento: guarda e basta.
Finisce l’allenamento e sale negli spogliatoi e io, casualmente, finisco la scheda nello stesso momento. Uno dei mille motivi per cui essere gay è meglio che essere donne è che se ti piace qualcuno puoi sempre seguirlo negli spogliatoi o nei cessi dei locali senza destare sospetti.
Siamo soli, potrebbe essere il momento giusto, quanto meno per salutarlo ma mi si ferma il fiato in gola quindi raccatto le mie cose ed esco. Mentre faccio le scale mi rode il culo per l’occasione persa perciò, un uomo di quasi 40 anni, un professionista nel suo lavoro, responsabile con la famiglia, presente con gli amici, retto con la legge e probo con la società cosa fa? Va alla reception si fa dare un bigliettino e una penna e scrive un messaggio con il suo numero di telefono.
“Senti potresti dare questo foglietto a un ragazzo che sta ancora nello spogliatoio e tra poco scende? Non ti puoi sbagliare c’è solo lui”, faccio alla ragazza alla reception che se non ha un ematoma cranico che le preme sul lobo temporale ha capito al volo tutto quanto.
“Come si chiama?”, mi fa lei.
“Guarda non mi ricordo ma non ti puoi sbagliare, è il numero di un negozio che gli serve…”, rispondo rendendomi conto di aver appena fatto una delle cose più imbarazzanti e umilianti che uno uscito dall’adolescenza possa commettere.
“Va bene”, risponde lei poco convinta.
Passa mezz’ora. Forse si sta ancora vestendo.
Passa un’ora. Beh, forse se la vuole tirare un po’.
Ne passano tre. Mi sa che è cieco e non può leggere il numero.
Passa un giorno. Sono un coglione.
Non avessi fatto l’abbonamento annuale mi cancellerei dalla vergogna ma poi mi dico “vabbé, hai altro di cui imbarazzarti della tua vita che questa bazzeccola”.
Sabato scorso rivado e lo rivedo. Nel frattempo si è anche tagliato i capelli.
Mi alleno con il compagno di una mia amica e gli racconto l’antefatto mentre gli spiego (è un novizio del fitness) come funziona la pressa per le gambe quando dallo specchio vedo il tipo avvicinarsi, mi guarda e, indicando la macchina per i dorsali, mi chiede: “ti serve”.
Io bofonchio il più ridicolo dei: “No, prego” ma con il tono di chi dice: “ma hai ricevuto un biglietto per caso con un numero e un nome? Beh, tante volte lo pensassi, sappi che non sono io. Figurati mi chiamo Luca e non ho neppure un cellulare!”.
Insomma vediamola positiva: un primo contatto verbale c’è stato. È già qualcosa, no? E voi indovinate sabato mattina dove sarò?

martedì 11 ottobre 2011

Quattro cose che non capisco del cinema.



















1) L’intervallo.

A metà degli anni ’90 le sale hanno iniziato a eliminare la pausa. Quel meraviglioso momento di requie tra un tempo e l’latro durante il quale si aveva il tempo di andare fuori a fumare una sigaretta, fare qualche primo commento a caldo sul film, fare spesa di pop corn e cornetti Algida e, non ultimo, andare a cambiare l’acqua alle olive (io che ho la vescica debole da allora sono costretto ad accavallare le gambe trattenendo la pipì fino quasi a scoppiare o rinunciare a qualche minuto di film precipitandomi in bagno veloce come se il cinema stesse andando a fuoco).
A un certo punto quindi si è deciso che il film andava visto tutto d’un fiato per non interrompere il flusso narrativo, per mantenere alta la tensione emotiva e tutte quelle fregnacce da intellettuali dell’ultima ora. Regola applicata solo al cinema a quanto pare perché non ho mai sentito dire che “Guerra e pace” va letto tutto d’un colpo né nessuno è tanto coraggioso da proporre l’ascolto del Tannhäuser di Wagner.

2) vedere i titoli di coda fino alla fine.

Cos’è hai un cugino che sviluppa pellicole che devi restare lì piantato per veder apparire il suo nome fino a che non passano con lo straccio per pulire la sala?
A parte poi che non fanno neppure defluire il pubblico della loro fila che magari giustamente ha altro da fare ma poi l’ostinazione insensata di farlo anche con pellicole svedesi dove i nomi sono solo accozzaglie di consonanti con i puntini sulle lettere e le O sbarrate resta uno dei grandi misteri del cosmo.

3) i posti numerati.

In se è l’innovazione migliore dai tempi dei fratelli Lumiere, evita risse fratricide e arrembaggi all’arma bianca ma capita spesso che la sala sia vuota quindi se si è in 10 e qualcuno decide di scegliere un altro posto rispetto a quello assegnato per vedere meglio il film mi sembra una tigna da nevrotici arrivare sventolando il proprio biglietto retarguendo lo sventurato come se avesse commesso un furto. Ci sono altri 600 ottimi posti, comodi e centrali, mettiti lì e risparmia le tue “questioni di principio” per cose più serie.


4) vedere i film in lingua originale.

Tra tutte è la cosa che sopporto meno.
Allora io parlo per me quindi liberi di contraddirmi ma il mio inglese pur essendo molto buono si va a far fottere se il film che devo vedere è una storia di degrado urbano, di quelle magari candidate a 23 oscar e osannato dalla critica al Sundace Film festival, dove una gang di Los Angeles riedita lo scontro tra Capuleti e Montecchi parlando uno slang che non si capisce una cippa neppur se sei nato a Glendale. E poi o vedo il film o leggo i sottotitoli. Mica ho gli occhi periscopici come i camaleonti.
Peggio mi sento poi se non è neppure in inglese. Tanto vale che mi compro il libro e faccio prima. Poi dicono: “beh, ma così apprezzi fino in fondo la vera bravura dell’attore”, certo del resto se vado a vedere X Man non lo faccio per sbavare davanti al torso nudo di Hugh Jackman ma per sentire come scandisce bene le battute del film…

giovedì 6 ottobre 2011

GOOD JOB, MR JOBS.




















Il primo ipod me lo ha regalato il mio ex ragazzo. Era uno di prima
generazione. All’epoca girare con quello in mano garantiva più
attenzioni che se fossi andato per la città a dorso di un unicorno.
Da quel giorno sono stato infettato anche io dal virus Apple perché di
lì a pochi anni ho comprato in rapida successione un mini ipod (quello
da 40 giga era troppo ingombrante), uno shuffle (beh, quando vai in
palestra ti serve un lettore piccolo e leggero!), un altro da 20 giga
(questa generazione ti faceva vedere anche i film e le foto, certo ti
dovevi sguerciare ma era fondamentale), un ibook (beh, non avevo un
computer a casa) e per finire un ipod touch (e che te lo dico a fare).
Non lo nascondo, a volte mettevo in fila sul tavolo tutti i miei
gingilli e li ammiravo, come farebbe una bambina con la sua collezione
di Barbie. Ma era davvero necessario averne così tanti? Affatto. Chi
compra Apple non lo fa mai per una questione funzionale ma è spinto
dal piacere che procura il bello, esattamente come si fa con i
gioielli o le macchine sportive.
Oggi il creatore di Apple è morto. E quando a scomparire è uno dei
fondatori di questa società 2.0 il cordoglio assume subito dimensioni
globali e istantanee.
Stamattina tutti i telegiornali, la rete e Facebook non parlano
d’altro. Migliaia di persone si sono riversate davanti agli store
Apple per testimoniare con fiori, candele e messaggi scritti il loro
dispiacere, un’immagine che dalla morte di Lady D ci è sempre più
familiare.
Questo mi ha fatto pensare come il progresso mediatico abbia portato
con sé anche l’evoluzione del concetto di cordoglio. Una volta ci si
addolorava solo per la scomparsa di persone che realmente facevano
parte della nostra vita, oggi lo facciamo anche per chi conoscevamo
solo virtualmente, ma del quale stimavamo il valore. Ovviamente è un
dolore differente, non è struggente e lancinante come quello causato
dalla scomparsa di chi ci è davvero caro. È più dispiacere, tristezza,
rammarico per aver perso qualcuno che con la sua vita ha qualificato
anche la nostra. E questo non perché ci abbia banalmente permesso di
scambiare foto in tempo reale o fatto ascoltare Britney Spears ovunque
volessimo ma perché ha dato un messaggio persino più grande delle sue
creazioni: perseguire con tenacia il proprio sogno porta sempre al
successo. Un pensiero un po’ retorico, da super eroe dei fumetti, e
forse così potremmo liquidarlo se poi con la sua morte prematura e
incontrastabile non avesse reso la sua vita incredibilmente umana e
vicina alla nostra.