lunedì 23 aprile 2012

SPECCHIO DELLE MIE BRAME.

Camerini e bagni d’albergo hanno in comune la stessa qualità. I loro specchi hanno il potere magico di rimandarci di noi un’immagine sublime quanto irreale motivo per il quale il 70% delle foto profilo schiaffate nelle chat vengono fatte proprio lì dentro e immortalate con repentino entusiasmo come se quell’incanto si dovesse infrangere da un istante all’altro e meritasse quindi di essere fissata per l’eternità, con buona pace di Mr. Grey. Io non sono di quelli che credono alle varie teorie dei complotti che vanno dalla morte di Kennedy per mano degli alieni fino a quella degli Illuminati che hanno ordito la morte di Witheny Huston per far sì che la sua voce migrasse verso le corde vocali della figlia neonata di Beyoncé ma a quella delle catene di hotel e negozi di abbigliamento che hanno assoldato Storaro per inventare un sistema di luci e ombre tali che anche se ti sei appena alzato da un banchetto di nozze abruzzese risulti avere un fisico scolpito quanto un modello di intimo, a quello sì, e come. Sarà capitato anche a voi infatti di provare un vestito nei camerini angusti e crepuscolari di H&M, ZARA o Pull&Bear (credo sia lo stesso anche in quelli di LV, Dior e Lanvin ma quelli, visto il budget che solitamente destino allo shopping, chi li ha visti mai) e chiedervi cos’abbia in più di voi David Gandy (a parte quei 20 cm di altezza). Quegli “specchi delle nostre brame” non solo hanno il potere di assottigliarvi la figura ma riescono a tirare fuori ogni venuzza nascosta nel bicipite facendo affiorare addominali altrimenti inesistenti con una definizione muscolare che non avreste neppure fosse stata l’ostia della prima comunione l’ultimo carboidrato inghiottito in vita vostra. La stessa proprietà taumaturgica ce l’hanno anche gli specchi dei bagni degli hotel, ma solo da 4 stelle in su. Il mese scorso ero a Londra per il compleanno di un amico. L’albergo me lo aveva offerto il festeggiato (motivo per il quale era un ****). Esco dalla doccia e con il phon dissipo il vapore condensato sulla specchiera che copre i ¾ della parete. Vedo così comporsi davanti a me una silouette maschile meravigliosamente tonica. Mi giro di scatto per vedere se non ci sia un ragazzo nudo dietro di me, poi mi accorgo di essere solo e che quello nello specchio sono proprio io. Sapete quei momenti che vorreste durassero un’eternità come quando avete ascoltato Bossi balbettare cercando di difendere il Trota? Ecco proprio uno di quelli tant’è che afferro il telefono e scatto una foto immediatamente messa su Grindr ma rimossa dopo una settimana per evitare denunce dalla Codacons per alterazione del prodotto. Sul perché poi ripetuto l’esperimento il giorno dopo a casa mia (ricreando le stesse condizioni di orario, umidità e permanenza in doccia, come ogni manuale di ricerca sul campo insegna) il risultato non sia stato neppure lontanamente paragonabile, io ho una mia teoria personalissima: perché semplicemente non sono così. La mia immagine sublimata infatti è rimasta ostaggio di quella camera d’albergo e i proprietari dell’hotel lo sanno bene perché è parte del loro piano: instillare nel cliente il ricordo piacevole vissuto lì per trasformarci in affezionati clienti e indurci a tornare e ritornare, sempre più spesso, per bearci di nuovo di quell’immagine alterata che però è pur sempre la nostra. Per quanto mi riguarda, continuo a credere che le piramidi non siano piste di atterraggio per i Venusiani, che il mondo non finirà questo dicembre e che non è vero che l’11 settembre gli ebrei che lavoravano nelle torri fossero stati avvisati in anticipo di non entrare negli edifici ma invece del complotto ideato dal cartello delle case di moda e delle catene alberghiere che ci vogliono rendere schiavi dei loro camerini e bagni, ne sono assolutamente convinto.

giovedì 19 aprile 2012

TI PRESENTO UN AMICO.


Quando le persone vengono a sapere che sono zitello da 10 anni assumono solitamente un’espressione mutevole che inizialmente sembra quella di chi pensa di aver capito male, per poi trasformarsi in un’altra che vorrebbe dire “ma hai qualcosa che non va? Una deformazione fisica o una patologia mentale?”, per poi assestarsi in un più commiserevole sguardo di compassione.
A quel punto, se a chiedermelo è una ragazza, spunta in lei anche quella strana caratteristica femminile descrivibile con il titolo del film di Hitchcock “Io ti salverò”. Atteggiamento che le porta alternativamente a impelagarsi in relazioni distruttive con dei farabutti come appunto a cercare di sistemarmi come se l’assenza di una relazione fosse un male terribile da affrontare e curare insieme.
La settimana scora sento la mia amica lesbica Ano (che è una storpiatura del suo nome creata da un’inserviente sordastra della mensa del suo ufficio la quale aveva capito male il suo vero nome, piuttosto desueto in verità) per metterci d’accordo e andare insieme a teatro il prossimo sabato. Ho chiarito che si tratta di una lesbica non perché voglia ostentare la mia capacità estremamente democratica di uscire persino con “loro” ma semplicemente per ribadire come le donne, lesbo, etero o del PdL, alla fine sono tutte uguali. Tant’è che facendo un breve riassunto delle nostre vite è rimasta piuttosto imperturbata dal fatto che mi avessero tolto la patente per guida per stato di ebbrezza, che sia condannato quindi a vagare con i mezzi pubblici per mesi indefiniti, che potrei rischiare il carcere, la sospensione della cittadinanza e la dannatio memorie (e il “trota” è ancora a piede libero ma, vabbé, ma non voglio fare polemiche…) ma quando le ho detto che ero ancora single e che stavo celebrando il decimo anniversario di desolazione sentimentale il suo cuore si è stretto così tanto che ho potuto sentirlo per telefono.
A questo punto, anche lei ha indossato maschera e mantello e al grido di “io ti salvero!” ha detto quello che tutte le donne in una situazione del genere dicono: “io ho un amico che ti devo presentare e che sono sicuro ti piacerà”.
Ora, come ho detto prima, le donne in questo sono tutte uguali, e tutte, invariabilmente, hanno un’idea di “perfetto per te” che non coincide mai con quello che io penso sia “perfetto per me”. Siccome però apprezzo la tenera dedizione delle mie amiche ma allo stesso tempo vorrei evitare imbarazzanti appuntamenti al buio chiedo sempre: “com’è? Ma non mi dire che la sua qualità principale è la simpatia perché me ne faccio niente se è l’inventore della terapia del sorriso e se ne va in giro con un camice da dottore e una maschera da clown per i reparti pediatrici ma poi è un ciospo (ndr: neologismo onomatopeico per dire "uomo poco attraente")”.
“Guarda, secondo me ha il carattere adatto a te, è uno che sa tenerti testa”, replica entusiasta Ano.
Come se io cercassi uno sparring partners invece di un fidanzato.
“Com’è fisicamente?”, chiedo tagliando corto.
“Potrebbe piacerti”. Una risposta del menga. Ma certo che i gusti sono soggettivi. Se pensi che Carmen Russo sta con un uomo che sembra un muppet di Sesamo’s Street, tutto è possibile nella vita.
Parte poi a raffica:
“E’ intelligente”. No.
“Brillante”. No!
“Adorabile”. Noo!!
Tutti aggettivi che non suscitano in me alcun interesse, soprattutto se a dirlo è appunto una donna, con parametri erotici del tutto opposti a alla scala di valori che noi uomini (anche qui, etero e gay non fa la differenza) cerchiamo nell’altro/a, almeno all’inizio.
Bastava avesse detto che ha smesso di lavorare nel mondo del porno per dedicarsi alla gestioni dei vasti possedimenti di cui è proprietario tra Antigua, Hong Kong e New York per far si che mi presenti sabato tirato a lucido come la posateria d’argento della regina d’Inghilterra.
Se poi in coda a questa apertura vuole anche dirmi che raccoglie randagi per strada e che sa fare a mente le divisioni a tre cifre, perfetto, nessuno, tanto meno io, è così superficiale da pensare di superare la notte solo in virtù della bellezza ma se il “carattere” (insieme alle mani e la galanteria), è la prima caratteristica che fa capitolare le femmine, ti ringrazio amica mia, ma la stessa cosa non vale per me.
Staremo però a vedere.

martedì 17 aprile 2012

AUSTRALIA: LA PIU' SOPRAVVALUTATA.



Lo so che ci sono considerazioni impopolari che si farebbe bene a tenere per se, non tanto perché persuasi del contrario ma solo per quieto vivere. Lo seppe bene il povero Galileo quando fu costretto ad abiurare l’evidenza della scoperta scientifica a vantaggio della superstizione religiosa dichiarando, suo malgrado che “sì, è il cosmo a girare intorno alla terra”. Eppure, pur non sentendomi minimamente latore di una verità così eclatante, anche io, a modo mio, ho bisogno di dirlo: “Sydney è la meta turistica più sopravvalutata della terra!!”.
Ma si sa, il mondo gay è pervaso di falsi miti (Madonna è un’artista) e improbabili verità (in Israele sono tutti attivi e con batocchi tanto grandi che in confronto il bastone con cui Mosé fece spalancare le rive del mar rosso sembra un fiammifero).
Chiarisco però subito una cosa: io sono pazzo degli australiani. Li trovo affascinanti, sexy, rilassati e mediamente hanno tutti corpi armonici e definiti che sembrano essere stati buttati in mare all’età di 3 anni e ripescati a 20 e per una strana coincidenza astrale ho un successo presso i più lontani sudditi della corona britannica del tutto inspiegabile, quindi mi costa dirlo ma: Sydney, secondo me è un bluffone.
Prima di tutto la distanza.
Non esiste città sulla faccia di questo pianeta che potrebbe farmi affrontare 28 ore di volo neppure se al mio arrivo trovassi la nazionale di rugby ad attendermi e fossi io il solo essere vivente bipede che vedono dopo un’astinenza sessuale forzata di 2 anni. Un giorno intero di aereo (per giunta in economy, figuriamoci) è una di quelle esperienze che ti cambiano la vita, più di un trasloco o il lutto di entrambe i genitori a distanza di una settimana. Tra jet leg in partenza e quello al ritorno, dovrei stare almeno un mese laggiù per ammortizzare la spossatezza. E qui arriviamo al secondo motivo per il quale non andrei.
Come detto non è esattamente una meta da raggiungere per il ponte del primo maggio quindi, ammesso che tu possa prenderti tutte queste ferie, dopo che hai visto l’Opera House, ti sei fatto un aperitivo vista oceano, hai fatto una passeggiata per il centro della città e 4 zompi in discoteca, cosa fai nelle restanti 22 ore della giornata?
Dice: ma l’Australia ha una natura selvaggia affascinate. Natura che con il dovuto rispetto io definirei: deserto. E state certi che io la fine di Priscilla, perso nel mezzo del nulla, con il rischio di essere sbranato da un dingo solo per la smania di andare a vedere una roccia gigante lasciata a essiccare nel centro del continente come la cacca di Godzilla, non la faccio.
Ma ammettiamo pure che le distanze non vi turbino, che di cose da fare voi ne troviate (alla peggio vi comprate l’enciclopedia del sudoku e via), parliamo del terzo aspetto rilevante: il budget.
Inutile cercare, non esiste una bassa stagione, non un’offerta né sconti particolari e a meno che non decidano di costruire centrali nucleari che vengano polverizzate da uno tzunami con un conseguente collasso del turismo, vi costa quanto 6 anni di villeggiatura a Santa Marinella. Certo Bondi Beach non è la stessa cosa ma vai a trovare lì un buon grattacheccaro?
E concludiamo con gli uomini. Lo so che Aussiebum è nata lì, che come ho detto prima, seno una razza geneticamente superiore, una cornucopia di delizie, un’amplesso di grazie ma, per favore, non facciamo sempre i soliti morti di fame, manco vivessimo nelle Filippine. Di bei ragazzi se ne trovano, e nel raggio di sole 2 ore di volo, se siete degli inguaribili romantici (o per dirla meglio: dei gargarozzoni) hai vogli a trovarne senza considerare che il loro amore per i viaggi li porta ciclicamente ad approdare sui lidi europei e soprattutto italiani per cui, con una buona dose di pazienza, come dice il vecchio adagio cinese, non basta che pazientare e spettare sulla riva del Tevere l’arrivo stagionale delle frotte Aussi boy.

giovedì 12 aprile 2012

MDNA MA NDOVAI?


La cosa mi preoccupa non perché mi interessi particolarmente di Madonna, campionessa di playback estremo, ma perché se persino lei, che può contare sul sostegno dogmatico (quando non isterico) di una schiera infinita e trasversale di omoricchioni pronti a comprare il suo CD (la versione delux, ovviamente, che certo costa 5 euro di più ma “che non li vuoi spendere per ascoltare 2 remix?”, campionati dalla sua voce mentre via skype dice ai produttori in sala d’incisione “oggi piove, col cazzo che vengo, fate voi io mi rimetto a letto”), floppa con un crollo dell’88% delle vendite da una settimana all’altra, allora c’è da interrogarsi su cosa stia accadendo.
Al livello macroscopico, neppure stiamo qui a ripeterlo che c’è crisi e 10 euro per tanti è una signora cifra meglio investibile nella spesa (se sei bravo, aguzzi lo sguardo, scovi l’offerta e soprattutto ti servi solo da Todis ci sfanghi quasi una settimana). Al livello più personale invece credo semplicemente che la gente stia tornando a volere prodotti di qualità, che si sia stufata di essere presa per il culo (vedi anche i tracolli dei cine-vanzina) e che il senso del ridicolo di una "Baby Jane Hudson" imbellettata come una ventenne e priva di quell’ironia che sarebbe necessaria per essere credibile, ha raggiunto il colmo. Crisi discografica mondiale? Certo, anche, ma quel boiler canterino di Adele sono 2 anni che vende dischi che vanno a ruba come fossero vaccini contro il cancro. Il perché? Mah credo semplicemente che il suo successo sia dovuto al fatto che è vera, perché canta canzoni che vuoi sentire e riascoltare, perché non da soluzioni ai dolori del cuore né racconta scenari particolarmente originali ma, proprio per questo, sono condivisibili, banali come spesso sono le nostre vite (anche se la consapevolezza di questo fatto, ci fa rodere un po’).
Al contrario, come fai invece a immedesimarti con una che ti grida “Girls gone wild” per 4 minuti quando te non sei ne una "girl" ne tantomeno "wild"?
Come dice la Rossellini alla cadente attriciaccia interpretata dalla Streep ne “La morte ti fa bella” poco dopo averle dato la pozione dell’eterna giovinezza: “io ti darò la bellezza, per altri 10 anni sarai ancora favolosa e famosa ma poi, ti dovrai ritirare dalle scene” (più o meno è questa la battuta…), sintetizzando così in pochi minuti una formidabile parabola della grazia, del senso della misura e della consapevolezza dei limiti imposti da una vecchiaia che dovrebbe essere discreta e dignitosa e che invece Madonna combatte ostinatamente.
“Beh ma fallo te quello che fa lei a 55 anni!”, gridano i sui fan più accaniti secondi solo ai sorcini di Zero negli anni ’70. Ma ragazzi, guardate che non gliel’ha mica imposto qualcuno di rischiare la frattura del femore per fare la spaccata. Si prendesse una chitarra e uno sgabello, una gonna lunga a fiori stampati e cantasse senza pretendere di essere il numero di chiusura di uno spettacolo del Cirque du Soleil! A un certo punto, del resto, uno il colpo lo deve mollare, non per resa ma per decenza. Alla fine ci si deve ritirare perché la carica è esaurita (infatti sono 10 anni che si copia e si ripete, hops, scusate lei si “reinventa”), perché il talento ha un limite e il suo era già molto limitato negli anni ’90, figuriamoci oggi. Allora faccia come le clienti della Rossellini, si ritiri, finga una morte misteriosa e tragica che da sempre è il passaporto per l’Olimpo, anche per i meno dotati, o migri in Ohio a fare conserve di frutta tanto quella non saprà cantare ma è vero che caverebbe soldi anche da una pietra.

lunedì 2 aprile 2012

IL VESTITO DI PASQUA.



In prossimità della Pasqua mia madre portava me e mio fratello a comprare i vestiti per la festa. Io appartengo a quella generazione per la quale l'acquisto di un abito non era frutto di una pulsione nevrotica ma veniva motivato e cadenzato dagli eventi ciclici (le festività) o straordinari (matrimoni, battesimi e altre cerimonie) che si susseguivano durante l’anno.
Luisa era la proprietaria di un negozio per bambini nei pressi del mercato di Villa Gordiani. Era uno di quei negozi di sostanza dove le vetrine neppure c’erano e la eco veniva attutita dalla mole abnorme di vestiti accalcati sugli espositori e dalle pile torreggianti di scatole contenenti mutande, calzini, nastri per capelli e ogni altro tipo di accessorio per un pubblico 0-12 che la manifatturiera italiana aveva prodotto negli ultimi 20 anni. Potevi trovare di tutto, dai costumi di carnevale agli abiti consoni per un funerale, così, tutti insieme, senza alcuna turnazione stagionale sparpagliati qua e la secondo un ordine caotico chiaro solo alla proprietaria e alle sue 2 commesse.
“Stavo cercando una camicetta in fresco lino, con dei ricami a fiori sul colletto e i bottoni in madreperla". Non importava quanto la richiesta fosse specifica e speciosa, Luisa partiva come un cane al quale si fosse fatto fiutare l’indumento di uno scomparso e nel giro di 2 minuti tornava esattamente con quello che la cliente cercava.
Ogni anno quindi, nella settimana precedente la Pasqua, io e mio fratello venivamo portati da Luisa, nota anche come “Omini di Ferro” (il negozio non aveva neppure un nome ma per convenzione aveva preso quello di quella fabbrica di confezioni per bambini che credo ormai non esista più) per comprarci i vestiti da indossare la domenica di resurrezione e che avremmo indossato poi per tutta la stagione primavera-estate in occasione di qualsiasi evento che richiedesse un minimo di eleganza. Mai che abbia potuto esprimere un giudizio sulle scelte di stile di mia madre un po’ perché tutto avevo all’epoca meno che gusto nel vestire (a differenza di quello per gli uomini, questo si è affinato con la maturità) un po’ perché mi sembrava che tutto ciò che mi mettevano addosso fosse bello, per la grazia che sembrano avere tutte le cose nuove e perché le commesse in coro mi guardavano dicendo “sembra fatto apposta per lui” (mentendo come è ovvio che facciano tutti i commercianti quando devono piazzare la loro merce).
Scelti i vestiti, Luisa segnava l’importo sul taccuino dei clienti abituali i quali avevano il privilegio di rateizzare un po' alla volta ma che per questo, non potendo emettere lo scontrino, subivano la mortificazione di essere caricati in un bustone grigio e anonimo che non avrebbe mai attirato l’attenzione di eventuali controlli della finanza.
La tortura peggior per un bambino è comprargli un abito nuovo e imporgli però di aspettare per poterlo indossare e benché mancassero pochi giorni alla data fatidica per me sembravano sempre un tempo siderale. A questa restrizione però venivano applicate delle clausole benevole che mi permettevano di indossare il vestito in casa ma a patto di:
non rimuovere le etichette che, come sigilli papali potevano essere staccate solo la mattina di Pasqua;
tenermi alla larga da ogni fonte di sporco;
non sgualcirlo, costringendomi così a deambulare per casa con la rigidità di una statua di pietra.
E poi arrivava il gran giorno. Mi alzavo all’alba, prima di tutti e mi precipitavo in sala da pranzo per sollevare il celophan che proteggeva il mio vestito. Andavo in cucina, prendevo le forbici e tagliavo via i sacri sigilli. Mi lavavo, mi aspergevo con un po’ di profumo di mio padre, mi pettinavo facendomi la riga da una parte e poi indossavo il vestito, con tutta la cura di cui ero capace come se quegli indumenti fossero stati confezionati con carta velina. Poi mi rimirarmi nella specchiera a figura intera che avevamo nella stanza di mio nonno e non potevo che convincermi che fossi io il bambino più bello del mondo, pronto ad uscire per raccogliere i consensi di amici e parenti sopraffatti dalla mia eleganza.