lunedì 29 giugno 2009

SCUSI, DOV'E' LA TUALET?






















L’altra sera vado a vedere “Uomini che odiano le donne”.
Il film dura più di una guerra di media entità tra repubbliche africane quindi l’ho visto a singhiozzi dal momento che sono dovuto andare al bagno almeno 5 volte un po’ perché mi ero appena bevuto un litro di coca cola e una macedonia gigante, un po’ perché vedere quei paesaggi innevati in cui è ambientata la storia mi ha stimolato ancora di più. Non ricordo se fosse durante la terza o quarta pisciata ma, mentre ero in piedi con la faccia la muro, mi metto a considerare quanto sia terribile non poterla fare quando ti scappa e al godimento che provo quando alla fine, per il rotto della cuffia, riesco ad evitare l’imbarazzo di inzupparmi i pantaloni.
Purtroppo questo è il mio unico vero limite fisico: devo fare la pipì spesso e ho la capacità di trattenerla pari a quella di una vecchia di 90 anni.
Qualche mese fa ho raccontato in un post di quella volta in cui, per cercare un bagno, mi sono perso a Granata e i miei amici, dopo ore, non vedendomi tornare, chiamarono la polizia. Ma che dire allora della volta in cui il raptus pisciatorio mi assalì durante una gara di nuoto?
“La piscina è fondamentale per lo sviluppo dei ragazzi”, all’epoca era questo il consiglio che andava più di moda tra i pediatri. “Tra un paio di anni potete portarcelo”. Questa seconda parte della raccomandazione però non fu minimamente presa in considerazione da mio padre che nel frattempo era corso via dallo studio medico con me in braccio per lanciarmi nella prima piscina che gli era capitata a tiro. Quindi a 3 anni sono già in vasca e ne uscirò solo a 15. Se si escludono un paio di anni di pausa, sono la cosa più vicina ad un pesce dopo Ariel, la sirenetta di Andesrsen.
Come tutti gli sport che mi sono stati imposti dai mio padre, e sono davvero tanti, l’ho sempre subito e praticato contro voglia. Oltre alla tortura settimanale degli allenamenti, si doveva aggiungere anche l’umiliazione mensile delle competizioni alle quali arrivavo immancabilmente ultimo o, come capitò una volta, secondo, solo perché doppiato dal vincitore dalla batteria successiva.
Avrò avuto otto anni. Una domenica come altre, in una gara come atre. Per una condivisa forma di masochismo, le competizioni per i più piccoli si devono sempre svolgere all’alba quindi alle 8 tutti i ragazzini che come me subivano la stessa tortura (più per il compiacimento dei genitori che per un loro reale spirito agonistico) sono ammassati accanto alle vasche. Da quel momento veniamo sigillati e nessuno può abbandonare la postazione. La pipì, se la dovevi fare, ci dovevi pensare prima. E io già a quell’ora avevo un vago stimolo.
Sugli spalti che coronano la vasca grande, sono assiepati tutti i parenti con le macchinette fotografiche per immortalare le glorie natatorie dei propri pargoli. Tra questi spicca mio padre che da 30 metri ha il fiato sufficiente per gridarmi consigli su come affrontare la gara e mi mostra come dare le bracciate. Lui, che al mare non si bagna mai oltre le ginocchia e lo stile libero crede sia una corrente letteraria.
Comunque alle 10 ancora non viene chiamata la mia batteria. Io sono lì con una cuffia di gomma calata sulla testa e che mi renderà calvo prima che arrivi a compiere 10 anni, avvolto in un accappatoio bianco e celeste.
La pressione della vescica inizia ad essere pungente.
“Posso andare in bagno?”, chiedo pietosamente al mio istruttore. “No, che adesso devi scendere in acqua”. Prima che quell’”adesso” diventi davvero “adesso”, si sono fatte le 12, 30. Finalmente fanno il mio nome. Mi spoglio e salgo sul blocco di partenza. In realtà a salirci è una figura umanoide tutta ritorta su se stessa come il fusto di un ulivo. Le gambe sono intrecciate per comprimere il mio pisellino ed evitare così di diventare la copia italiana del men che pis di Brucsel. La mia unica speranza è tuffarmi in acqua per liberarmi poi lì del fardello.
Siamo tutti allineati sui cubi numerati e attendiamo che il giudice dia il via. Io sono in preda alle convulsioni. Sudo e tremo. “Dai, soffia in quel cazzo di fischietto!!”.
Partenza!
Mi tuffo e appena mi immergo, inizio a pisciare. È tutta una gran confusione. Sto nuotando e facendo pipì allo stesso tempo. Sento il clamore dei parenti e su tutti la voce di mio padre che mi da il tempo come stesse sulla prua dell’imbarcazione degli Abbagnale. Mentre sono lì che agito braccia e gambe temo che dall’alto si possa però distinguere la scia giallastra che mi perdo dietro. Decido allora di sbattere ancora di più gli arti per far si che la spuma dissolva il più possibile l’orrido liquido. Mi agito così veementemente che sembro avere il motore di un torpediniere al posto delle gambe. E così, non mi rendo neppure conto che sto superando tutti i miei competitori e sono io il più incredulo quando tocco il traguardo per primo. Incredibile! Non era mai successo prima. Mio padre urla ancora più forte e solo perché ho 8 anni, nessuna commissione viene a prelevarmi il sangue per una conferma antidoping visto che credo di aver messo qualche cavolo di record.
Sono frastornato e troppo preoccupato che siano rimate tracce di pipì in vasca per godermi la gloria. Resto ancora qualche secondo attraccato al bordo della vasca. Esausto espello ormai serenamente ancora qualche goccia, poi esco dalla corsia con un espressione appagata e liberatoria che molti però confusero erroneamente per il compiacimento di una vittoria insperata.

giovedì 25 giugno 2009

SCHERZI ASSASSINI.

Forse è vero, siamo tutti dotati di senso dell’umorismo. Il problema però è che ognuno ha il suo e non sempre riusciamo a capirlo e riderci sopra. Tanto meno mia madre. Tanto meno quando si trattava degli scherzi che faceva da piccolo mio fratello (o almeno lui credeva fossero tali) e che lei, con un maggior senso del tragico, definiva: degli inconsapevoli tentativi di diventare prematuramente orfano.
A quattro anni mio fratello aveva iniziato ad accendere nei miei il sospetto che “L’esorcista” fosse in realtà un documentario più che un film e che, tutto sommato, anche la nostra famiglia poteva essere colpita da una sventura del genere. E forse la stavamo già vivendo perché a quell’età i bambini raccolgono margherite da regalare alle mamme, disegnano con i pastelli una casa con quattro stecchi sorridenti che poi ti spiegheranno essere io, mamma, papà e Insy, non se ne vanno di certo in giro ad aprire i bocchettoni antincendio dei cinema allagando la sala e costringendo il pubblico ad una fuga in stile Titanic.
Bello di mamma (l’epiteto con cui mamma soleva chiamare mio frate nella illusoria speranza di rabbonirlo) doveva essere afflitto da una noia mortale quando, a poco più di 3 anni escogitò l’ennesimo e, per mia madre quasi fatale, scherzo.
Mamma preferiva tenerlo a casa piuttosto che mandarlo al nido. Diceva che presto sarebbe andato all’asilo e che quindi da lì in poi avrebbe passato così tanti anni nelle scuole che le sembrava crudele spedircelo anzitempo (mentre io invece c’ero finito già all’età di 2 settimane, per di più, in un istituto di suore e non sono neppure mai stato chiamato “bello di mamma”).
Questo però comportava che durante le ore di veglia di mio fratello mia madre avesse un ritmo cardiaco costante di 150 pulsazioni al minuto e non tanto per le faccende domestiche in sé ma per la velocità con cui cercava di sbrigarle sorvegliando contemporaneamente che mio fratello non si arrampicasse sulla cima della libreria di mio nonno (passione già raccontata in un precedente post), ne che iniziasse a smontare le prese della corrente, seviziasse i suoi orsacchiotti o lanciasse a terra bicchieri, bomboniere di cristallo, cornici d’argento o tutto ciò che poi potesse irrimediabilmente rompersi o infrangersi.
Il terrore però più grande di mia madre erano le sedie e le finestre. Due elementi che sommati all'interesse di mio fratello per il fri claimbing e il bungi giamping la costringeva a controllare in una ronda senza sosta che le finestre fossero sempre ermeticamente serrate eliminando del tutto la presenza di sedie in casa, costringendoci così a pasteggiare a terra, su dei pleid colorati in un continuo stato di pic nic.
Il quei cinque minuti al giorno di pausa durante i quali doveva fumarsi una sigaretta, prendersi un caffè e fare pipì con la stessa rapidità dei un carcerato nella mezz’ora d’aria, delegava mio nonno di controllare mio fratello e, soprattutto di vigilare a che le finestre restassero chiuse.
Fu uscendo dal bagno con la cicca da una parte e la tazzina dall’altra che mia madre, quasi automaticamente ormai, chiese a mio nonno “dov’è Bello di mamma?”. Il volto del padre assunse subito l’espressione di terrore e smarrimento di chi sa già d’esser colpevole di una mancanza.
“Bello di mamma, Bello di mamma! Dove sei?”. La voce le si andava facendo sempre più preoccupata. E sì che non occorreva molto per trovare qualcuno in casa. Erano non più di 65 metri quadrati.
Davanti la porta della camera da letto si pietrificò come Sara alle pendici di Sodoma dopo aver osato voltarsi per guardare la città colpita dalla punizione di Dio. Non solo la finestra della camera era spalancata ma a ridosso, c’era uno sgabello sfuggito all’olocausto dei sedili. In quei pochissimi passi che la separavano dall’affaccio la sua mente fu inondata da un unico pensiero funesto che aveva sommerso quasi del tutto la sua capacità di razionalizzare tranne un’unica plausibile considerazione: “fosse caduto di sotto sentirei quantomeno le grida dei vicini” e questa tragica speranza fu la sola che le diede il coraggio di sporgersi dalla finestra. Bello di mamma non era diventato una mattonella del cortile! Grzie Signore! La tensione si svuotò in una frazione d’istante e con lei venne quasi meno persino mia madre che dovette reggersi alla balaustra. Ma allora: dov’era? Nello stesso istante in cui la mente di mia madre aveva iniziato ad elaborare ipotesi come il rapimento da parte degli ufo, Bello di mamma spalancò le ante dell’armadio in cui si era rinchiuso con lo stesso scatto di uno di quei claun a molla pressati in una scatola a carion. “Sorpresa!”. Il piccolino, ben consapevole delle fobie di mia madre, aveva elaborato una perfetta scena del crimine e aveva pensato che mettere su un finto suicidio avrebbe divertito moltissimo la nostra genitrice.
Al ritorno mio padre ci mise un po’ per riconoscere il figlio dietro quella maschera di lividi sul viso che lo rendevano più simile al Toro Scatenato di De Niro che al secondogenito e quando mia madre giustificò la ragione di quella scarica di botte, ci mancò poco che mio padre non completasse l’opera.

mercoledì 17 giugno 2009

IL SECONDOGENITO

La colpa di chi nasce ad agosto ricade sempre sui suoi genitori
E se il sudore abbonda sulla fronte del padre che aspetta nervoso fumando sigarette nel cortile assolato dell’ospedale semi deserto, figuriamoci in che condizioni si prepari all’espulsione quella povera donna afflitta dalle doglie. In questo contesto da acciaierie nasce mio fratello. Secondo di due.
La sera prima io e mia madre stiamo abbracciati sul balconcino di casa (un diminutivo piuttosto clemente trattandosi di una sporgenza di un metro per due) guardando le stelle e cercando un po’ di refrigerio. Il giorno dopo sfreccia con mio padre in una Alfasud testa di moro per le vie deserte di una Roma alla vigilia di Ferragosto.
Speravo da anni di avere un fratello. Avendo l’esempio di mio cugino, unico altro della famiglia che fosse più piccolo di me, mi ero convinto che tutti nascessero come lui: parlante, in grado di mangiare da solo e capace di saper contare almeno fino a 10, numero sufficiente per garantire una dignitosa partita di nascondino.
Quando invece, attraverso il vetro, l’infermiera che lo regge in braccio, ci mostra mio fratello la delusione è più forte dell’entusiasmo di mio padre che salta come un babbuino di fronte ad una cosa arrossata dallo sforzo del pianto e con una specie di budello vischioso, lungo e nero che gli pende dall’ombellico.
“Ma non è come Federico!”, l’espressione delusa è sempre la stessa che mi si era impressa sul volto al momento della presentazione. Nonostante abbia cinque anni, comunque non è proprio quello che una madre appena sventrata dal secondo cesareo vorrebbe sentirsi dire mentre tiene in braccio il secondogenito.
“Ma Federico ha tre anni. Anche lui crescerà”, mi risponde mia madre con una frase pacificatoria che è solo la prima di miliardi di atre che negli anni dirà per pacificare gli scontri tra me e mio fratello.
“Sì, ma ci voglio ancora tre anni!”, rispondo ostinatamente.
Il terzo figlio in genere è l’errore di una notte e tutti i successivi vengono sole se sei un fanatico dell’Opus Dei, il secondogenito invece arriva per due motivi: con il primo è andata benissimo e si vuole ripetere la stessa felice esperienza. Con il primo è andata malissimo e si vuole fare finalmente una felice esperienza. Non ho mai chiesto ai miei quale delle due li abbia spinti a ripetere l’esperimento. E che sia stata superbia o speranza di redenzione l’esperimento gli è comunque sfuggito di mano.
La prima a intuire che Stefano sarebbe stato un bambino piuttosto vivace (aggettivo che calzava a lui con la stessa eufemistica aderenza come definire robusto me che a 8 anni pesavo sessanta chili) fu mia madre. Attaccato al capezzolo, mio fratello non succhiava, mordeva. Nonostante questo, la mamma si ostinò ad allattarlo minimizzando i lividi sul petto fino al giorno in cui vedemmo Stefano masticare beatamente nel lettino qualcosa che una volta cavatoglielo a forza dalla bocca, scoprimmo essere l capezzolo mancante di mia madre. E fu così che passò al latte artificiale.
Ad un anno e mezzo era già campione di arrampicata libera sulla libreria di quercia di mio nonno. Una parete di pesantissimi scaffali colma di libri ed enciclopedie (abbindolate da venditori porta a porta) che si inerpicava fino al soffitto. I miei lo lasciavano fare sperando che così si stancasse abbastanza da cadere in un sonno profondo che neppure la camomilla riusciva a garantire dato che mio fratello era “uno di quei casi su un milione” sul quale l’infuso aveva invece un effetto eccitante (dubbio di mia madre che venne poi confermato dal pediatra dopo essersi accorta che più ne beveva più lui passava la notte sveglio, urlando e prendendo a pugni il suo orsacchiotto preferito ormai menomato di un occhi, entrambe le orecchie ed una gamba e onorificato a fine carriera con la croce al valore civile dell’ordine dei peluches).
Fu durante una di queste scalate che, tra il quarto e quinto scaffale, la sua morsa cedette facendolo precipitare giù andando a sbattere sul penultimo ripiano con l’unico incisivo che all’epoca gli era spuntato. Dopo anni continua ancora a tutti noi della famiglia capire la dinamica dell’incidente ma siamo più che certi che avesse disperatamente cercato un appiglio aggrappandosi con il dente. Quando atterrò aveva il sangue che gli usciva dalla bocca. Emise un unico urlo lancinante che richiamò i miei genitori poi il suo voltò si tramutò ne L’urlo di Munch: muto e disperato. Tanto era infatti il dolore che andò in apnea e nonostante le fauci aperte, non emetteva nessun suono. Le lacrime si erano impastate al sangue e le sue tempie erano due bracieri. Appena si riprese un po’, mio padre iniziò a pulirgli la bocca incrostata e lì iniziò il dramma vero. Il dente, l’unico, non c’era più. La battuta di caccia alla ricerca dell’incisivo partì subito. Capo spedizione mia madre detta occhio di lince. Io seguivo a quattro zampe e nelle retrovie mio nonno che con le mani giunte dietro la schiena osservava la scena dell’incidente con l’attenzione e lo scrupolo di chi non ha più fretta nella vita.
Niente. Il dente non si trovava.
Credo che i miei genitori abbiano sempre vissuto nel terrore di finire prima o poi inquisiti per violenza verso i minori perché spiegare come un bambino di 18 mesi riuscisse ad arrampicarsi come un capriolo rompendosi un dente a seguito di una caduta di 3 metri era molto meno verosimile che credere di aver massacrato il figlio in un momento di nervosismo eccessivo.
L’unica ipotesi plausibile era che il dente l’avesse ingoiato. A me non sembrava comunque una cosa tanto grave al punto di giustificare il fatto che nei tre giorni successivi, mia madre i mio padre passassero al setaccio la cacca i mio fratello per trovare l’incisivo perduto. Anche qualora l’avessero rinvenuto cosa pensavano di fare? Rincollarglielo?
Ma neppure questa disgustosa ricerca sembrò portare a dei risultati.
Qualche giorno dopo mentre mio fratello come al solito veniva tenuto fermo dalla morsa di mio padre per non farlo divincolare durante la tortura della pappa con mia madre che cercava di forzargli la bocca usando il cucchiaio come fosse un piede di porco per poterci versare dentro l’omogeneizzato, videro l’incisivo che credevano perduto, spuntare fuori di nuovo.
O mio fratello aveva nel corredo genetico la capacità degli squali di sostituire con dei nuovi denti quelli perduti o, come più plausibile, seppur nella sua straordinarietà, l’impatto sul bordo della libreria era stato talmente violento da causare il rientro nelle gengive per poi spuntare nuovamente. Mia madre iniziò a piangere dalla gioia e ad abbracciare Stefano che approfittò del momento di distrazione per sputare il bolo di verdura che aveva in bocca, mentre mio padre si sentì sollevato dalla sicurezza di non dover più rimestare nella merda del figlio che, sebbene fosse sangue del proprio sangue, pur sempre merda era.

martedì 16 giugno 2009

IL 17 A FERRARA


Lo so che ultimamente scrivo poco ma vuoi la ricerca del lavoro, vuoi la ricerca della casa, vuoi il giro per dermatologi che sto facendo per capire come curare questo sfogo di bolle che da 3 settimane mi sta devastando busto e gambe, vuoi il sonno indotto dagli psicofarmaci che prendo per superare questo periodo infausto, non ho avuto molto tempo per altro. Però Domani, alle 21, sono a Ferrra per presentare il libro in collaborazione con L'Arcigay. E siccome avverrà sotto i portici di Piazza Trento e dato che, voi guardate se non dovrò abituarmici a dormirci sotto, sono doppiamente contento di andare.
Quindi elargisco l'invito a ferraresi e non: ci vediamo domani sera.

PS: più che benvenuti: dermatologi, direttori creativi di agenzie pubblicitarie e affittuari con case a Roma.

giovedì 11 giugno 2009

CERCO CASA. (prima puntata)
















“Salve, chiamo per l’appartamento a piazza re di roma di cui ho letto su Portaportese: tre camere…”.
“Ma siete studenti fuori sede?”. Mi blocca con il tono di chi ha fatto quella domanda ameno 500 volte, solo quel giorno.
“No!”, rispondo come mi avesse dato dello stronzo.
“Lavoriamo tutti e tre” (per chi ci ha preso, per tre zecche di 20anni?!).
Sempre meccanicamente: “E avete la residenza a Roma”.
A questo punto potevano darmi un paio di cuffie e mettermi in una cabina di vetro perché inizio ad avere la sensazione di essere finito in una riedizione di SuperMaic. Faccio mente locale: io e Last Dai siamo romani de roma, il terzo per controbilanciare potremmo importarlo dalla Papua Nuova Guinea.
“Beh, si residenti, è un problema?”.
“Si, noi siamo l’Agenzia che lavora per questo cliente”.
E mentre lo dice mi immagino che all’altro capo del telefono ci sia Adolfo Cieli, con una benda sull’occhio, un lungo bocchino di vernice nera che sbuffa dalla bocca e un gatto bianco d’angora accovacciato sulle sue bambe.
“Mi spiace ma ricerchiamo studenti, meglio se ragazza e fuori sede”.
“Capisco…”, rispondo depennando quella referenza dal giornale di annunci.
In totale ne abbiamo cerchiai appena una dozzina tra le centinaia che farciscono le pagine dedicate agli affitti. Tolti infatti improponibili “signorili” a Parioli, “funzionali” monolocali, quelli che per arrivarci devi rinnovare il passaporto o, appunto, gli annunci dedicati a “solo ragazze” (come se il fatto di avere una vagina tra le gambe assicurasse l’integrità dell’appartamento), non ci sono poi tante occasioni d’affitto.
Come per tutto quello che riguarda il nostro paese, anche la ricerca di una casa pare non poter prescindere amicizie e conoscenze. Portaportese l’abbiamo quindi comprato più per scrupolo che per fiducia. Infatti, parallelamente sono stati allertati il pizzettaro sotto casa, Celestino, il proprietario del bar h24 (che sa i cazzi del quartiere più di una tavola del censimento dell’ISTAT), parenti, amici e amici di amici. Infatti è da un amico di un amico che arriva una prima probabile candidatura. E’ una casa che già conosco e sarebbe la svolta della vita soprattutto perché è sempre nel mio quartiere e quindi non subirei li scioc di dover cambiare le mie abitudini da ottuagenario potendo continuare a farmi fare il conto della spesa dalla cara Giuseppina, la cassiera della GS che credo non abbia sorriso neppure per farsi fare le foto il giorno del suo matrimonio.
Anche l’operazione “esodo” sarebbe poco traumatica perché potrei portare o meglio, far portare le mie cose praticamente a piedi (per questo chiederò alle mie amiche lesbiche, geneticamente predisposte per la mattanza dei rinoceronti a gomitate e per il traino con la fune di materiali pesanti e/o pericolosi).
In più, l’appartamento dispone anche di una microstanza già nota come “la camera del morto”, adattissima per ospitare amici ubriachi il sabato sera, parenti inaspettati il giorno del compleanno e amanti troppo poco prestanti per meritare il letto padronale.

martedì 9 giugno 2009

PRAID O PARTI?


















La passione per l’America noi ce l’abbiamo nel sangue. E’ dai tempi della liberazione dal nazifascismo che subiamo il fascino di tutto ciò che arriva da quel paese. Abbiamo cominciato con le gomme da masticare lanciate dai carrarmati agli scugnizzi napoletani, per arrivare ai fast fud negli anni ’80. Persino la festa di Allouin, la più lontana dalle nostre usanze, è diventata negli ultimi tempi addirittura più sentita del nostro locale carnevale.
Non stupisce quindi che anche il Ghei Praid sia diventato per i finocchi italiani un appuntamento irrinunciabile. Una ricorrenza che celebra l’emancipazione degli omosessuali da millenni di soprusi, le lotte per raggiungere la parità, il riconoscimento dei diritti e l’impegno fortissimo e costante che, tutt’oggi, le associazioni ghei continuano a profondere. Quindi noi finocchi italiani che c’entriamo con tutto questo? Abbiamo qualcosa da festeggiare?
Noi non siamo che degli imbucati. E ci presentiamo alla festa anche senza regalo. Infatti ci intromettiamo nelle celebrazioni che si fanno in tutto il mondo senza aver apportato neppure un minimo progresso alla causa comune.
Abbiamo ottenuto più tutele rispetto allo scorso anno? Rispetto allo scorso decennio o addirittura lo scorso secolo? Sembra paradossale ma se parliamo di diritti e leggi a salvaguardia di noi ghei le cose rispetto al tempo in cui il papa era re, non sono poi così cambiate a meno che qualcuno non voglia trovare emancipazione sociale nelle ospitate dei soliti noti ricchioni a “La vita in diretta” per discutere del culo di Belen o sull’annosa questione se gli abiti viola possano essere indossati alle prime a teatro.
Per anni ho sostenuto il praid e continuo a farlo ma mi chiedo se abbia senso oggi, alla luce delle sberle che continuiamo a farci dare da sinistra e da destra senza reagire, celebrare una festa che non c’è. Forse ce la caveremmo semplicemente sustituendi al termine “praid” quello più appropriato di “parti”.
Per me la parola “orgoglio”, ha una valenza di dignità, fierezza e consapevolezza di sé che francamente mal si adatta alla nostra situazione.
E mi rifiuto di imputare colpe alla solita Chiesa. Cosa mai vorremmo aspettaci da lei? Questa svolge la sua “missione” e sono i nostri politici quelli che dovrebbero garantire che le aspirazioni del Cielo non intralcino le necessità della terra. Ma non lo fanno. Ne noi, persone comuni o associazioni politiche, sembriamo avere il coraggio ti tirare loro le orecchie riportandoli all’assoluzione del loro ruolo rappresentativo di tutti gli italiani. Finocchi compresi.
La politica applicata da molte rappresentanze ghei che negli ultimi anni hanno creduto nella mediazione con l’interlocutore politico non ci ha portato ad alcun risultato sensibile. Mi chiedo dunque: è forse arrivato il tempo di cambiare strategia? Non è forse il momento che si alzi la voce e si sbatta il pugno sul tavolo?
Qui stiamo parlando di diritti sacrosanti. Di limiti posti alla realizzazione della nostra felicità. E noi, ancora ad aspettare che qualcuno dall’alto della sua poltrona ci elargisca magnanimamente qualcosa che dovrebbe essere di nostra proprietà per il solo fatto di essere persone.
Anche quando si tratta di froci la situazione italiana è anomala. Non siamo abbastanza sottosviluppati in termini di diritti civili tale per cui, anche il solo fatto di sfilare per le città sarebbe comunque un atto politici di visibilità e di affermazione esistenziale (come inizia timidamente ad accadere in alcuni paesi mediorientali) né siamo così emancipati da poterci permettere di celebrare dei traguardi politici che siano veramente nostri. Quindi sabato a Roma scenderemo in piazza (sapessimo quale, visto che l’autorizzazione ancora non ce l’hanno data), sfileremo tra carri e Carrà come dei pecoroni leopardati ma per dire che? Starnazzeremo rivendicando diritti che non sappiamo prenderci. Tra bandiere di associazioni senza artigli nell’indifferenza delle istituzioni.
Per poche ore giornali e televisioni ci regaleranno un’attenzione più attratta dal folclore che dalla politica.
I giornali di sinistra parleranno retoricamente di giusta rivendicazione dei diritti. Quelli di destra pubblicheranno le foto delle trans sulle limusin spalleggiati dai soliti servizi del tg4 e Studio Aperto che intervisteranno qualche frocetta idiota che non sa comporre una frase che non sia “a me me piace Madonna. E’ il mio mito!!” e con buona pace di tutti, poi si andrà a ballare tornando l’indomani esattamente nella stessa misera condizione di sempre.

giovedì 4 giugno 2009

SOTTO I PONTI


Pensavo che dare al mio racconto il titolo “Alla fine di questo libro la mia vita si autodistruggerà” fosse un modo ironico di esorcizzare il mio passato e non il lancio di una iattura atomica sul mio futuro. Invece, pare che la mia vita abbia seguito alla lettera questa previsione.
“Vediamoci che ti devo parlare” è quel tipo di frase che non può mai presagire altro che funeste prospettive. Provate infatti a contestualizzarla nella vostra relazione sentimentale. Se a dirvela è il vostro ragazzo, è sicuro che vuole mollarvi. Fate lo stesso in ambito lavorativo: il capo vi invita nel suo ufficio? Quando uscite siete pronti per il collocamento. E quando stamattina a dirmelo è stato per telefono il mio padrone di casa, già intuivo che non sarebbe stata una buona notizia.
Mi fa un’imboscata alle 9, mentre in mutande mangiavo la mia tazza di cereali ballando “Dauntaun” di Petula Clarc (pratica che adotto ormai da mesi per bruciare i pasti in tempo reale).
“Sono sotto casa. Mi trovavo a passare. Ti va un caffè?”. Mi trovavo a passare? Sì, certo…che casualità.
A me viene il panico, mi infilo a caso quello che trovo e scendo.
Gli appaio con una canotta di H&M che ha il motivo di una carta da parati degli anni ’60, pantaloncini verdi di fustagno e infradito gialle con una margherita scolorita sul plantare. Se mi guardassi fuori da me effettivamente anche io reclamerei casa mia strappandola ad un tipo del genere.
“Mi serve perché ho deciso di tornare a vivere qui. O la vendo. O forse la riaffitto”, a parte dire "o ci metto 12 moldave e ci faccio un bordello", le possibilità le ha dette tutte. Il solo fatto chiaro è che tocca fare gli scatoloni e andarsene. Gli serve dal primo settembre. Io rilancio: “beh, se ci riusciamo, anche dal primo agosto”, più che altro perché ho la naturale tendenza al paradosso quando capisco che non mi vogliono (infatti se il mio ex mi diceva “stasera vorrei starmene a casa” io rispondevo con uno drammatico “ho capito, allora non ci vediamo più, che è meglio”).
Dopo però aver parlato con Last Dai, il mio coinquilino, ho capito che non possiamo certo essere cacciati nel cuore della notte. E che cavolo, manco i nazisti nel ghetto di Varsavia sono stati così repentini!
Quindi, ora me ne vado un fine settimana a milano. Cerco di divertirmi e rilassarmi. A ritorno lo chiamo e gli dico che abbiamo bisogno di almeno 4 mesi. In caso contrario, lo tacceremo di omofobia, che funziona sempre.
Dunque ritornando al titolo del mio libro, da che è uscito mi hanno sfondato il motorino, mi si è suicidato il mec, ho perso il lavoro e adesso mi hanno sfrattato. L’amore va bene solo perché non c’è e voi quindi mi capirete se diserterò le analisi del sangue che avrei dovuto fare la prossima settimana.

mercoledì 3 giugno 2009

DOMANI ALLE 18 A BRESCIA. DA FELTRINELLI





















Cari Lombardi di tutta la lombardia, se vi va ci vediamo domani da Feltrinelli a Brescia, alle 18 per presentare il mio libro (quello della foto, che non mi va di riscrivere il titolo per intero, troppo lungo).
Vi aspetto!!
INSY

lunedì 1 giugno 2009

LA TERRA DELLE POPPE

I ghei l’estate vanno quasi tutti ad Ibiza e Miconos. I motivi sono la bellezza di queste isole, i boni che arrivano da tutto il mondo e, soprattutto, il fatto che traghetti e compagnie aeree che ci portano lì non fanno campagne pubblicitarie del genere. Immaginiamoci infatti se fosse vera la promessa che a bordo hanno più poppe che giubbotti di salvataggio: chiederemmo il risarcimento per danni morali.




















Quando ho raccolto questo volantino c’ho messo un po’ a realizzare che si trattava di un annuncio vero e non di uno scherzo ma è pur vero che ormai, dopo la nomina a ministro di una valletta di Mengacci, il livello di incredulità deve necessariamente adeguarsi a casi del genere. Come chi mi conosce sa benissimo, io delle femmine so solo che se non ci fossero, noi omoricchini avremmo più cacciagione a disposizione ma mi stupisco della mancanza di reazione delle donne di fronte a quello che mi permetto di leggere come un’offesa sessista. E più ancora mi chiedo dove siano le decine associazioni di difesa dei consumatori e le altre a tutela della “morale” dei minori come il MOIGE. Insomma tutte quelle congreghe di Farisei che poco più di un anno fa ci sfilacciarono gli zebedei con la campagna RARE dove si mostravano due uomini in atteggiamenti affettuosi.

Lì era tutto un invocare la messa al rogo della campagna che turbava le menti acerbe e corruttibili dei bambini dato che, si sa, se ad un ragazzino fai vedere due maschi che si baciano, quelli automaticamente diventano froci. Invece tutti tacciono davanti ad una campagna come questa che oltre a sfruttare una battuta che farebbe vergognare persino Pippo Franco al Bagaglino, campeggia sui cartelloni 6 metri per 3 sotto gli occhi di tutti, fanciullini compresi.
Insomma a me questo sembra un paradigma neppure tanto sottile di come si viva in un paese viriloide e maschilista, dove tutte le invettive sulla parità dei sessi che si sentono rivendicare all’alba dell’otto marzo vanno smorzandosi la sera andando al ristornate con le altre segretarie dell’ufficio, bevendo fino allo stordimento, per poi strusciarsi ad uno spogliarellista con un nome d’arte preso a caso tra quelli che compongono la rosa dei venti per poi tornare l’indomani ad abbozzare davanti a capi, colleghi e mariti. Non so se ci sia margine di indignazione in una cultura dove i genitori (spesso più le madri) tollerano che la figlia di 12 anni si vesta come una ragazza Cin Cin di Colpo grosso e che sogni un futuro da Canalis invece che un da Montalcini. Un posto dove non solo certi personaggi politici si trovano invischiati in imbarazzanti intrecci erotici con delle sgallettate poco più che maggiorenni ma si vedono anche dare una simbolica pacca sulla spalla da moltissimi che in questo non ravvedono lo squallore del caso ma solo una virile e comprensiva esuberanza testosternica.