Mio nonno rimase vedovo poco dopo la mia nascita. Propose quindi alla figlia, mia madre, di trasferirsi nel suo appartamento per sfruttare uno spazio altrimenti sprecato. Per tutta l’infanzia è stato lui a occuparsi di me. Era stato tanto severo e spietato nell’educazione dei figli quanto tenero e remissivo con il nipote.
Quasi tutti i giorni mi portava al parco in carrozzina “così respira l’aria buona”, diceva, e se capitava che mi addormentassi, per proteggermi dalla luce senza farmi svegliare, era capace di stare anche mezz’ora con la mano tesa facendomi ombra sugli occhi fino a che il sole non si fosse spostato.
Mio nonno era un uomo molto riservato, ordinato e frugale. Aveva due passioni: la musica classica (che continuava a insegnare saltuariamente a giovani studenti del conservatorio) e le parole crociate.
Si addormentava spesso sulla sedia con la penna ancora in mano, la Settimana Enigmistica tenuta per un lembo e gli occhiali sul naso. Poi si risvegliava, spesso per il fragore del suo stesso russare e come se nulla fosse tornava a segnare parole su quelle griglie numerate.
Con la sua banda musicale aveva girato il mondo in un tempo in cui gli spazi erano incommensurabili, quando New York era Nuova York e i suoi ricordi di viaggio erano per me più fantastici di qualsiasi racconto di gatti con gli stivali, di nani o principesse narcolettiche.
Mi mettevo sul suo letto e gli chiedevi di ripetermi, ancora una volta, di quando era stato in Germania in Argentina o in Africa.
Non perdeva quasi mai la pazienza ma quelle rare volte che capitava di discutere con la figlia o di intruppare a qualche spigolo lo sentivo imprecare “OSTIA!”. Non ho mai capito cosa volesse dire quella parola. Sapevo si trattava della città sul mare vicino Roma e quando iniziai ad andare a messa (sempre con lui visto che si era preso la briga di occuparsi anche della mia educazione religiosa) scoprii che poteva trattarsi anche del corpo di Cristo.
Prendeva sempre le mie difese a prescindere dalla ragione e quando mia madre mi rincorreva con una ciabatta in mano minacciando sterminio era sempre tra le sue gambe che trovavo rifugio mentre lui allontanava la furia della figlia con quell’autorità genitoriale sopita che riaffiorava in quelle occasioni.
Ero in prima media quando mio nonno entrò in ospedale. Era estate, ricordo che faceva molto caldo e ci voleva sempre tanto tempo per andarlo a trovare.
Rimase lì per molto tempo.
Un giorno tornai da scuola e trovai il comodino della sua camera spalancato. La scatola delle sue scarpe vuota a terra. Erano le sue preferite.
Quello che provò a dirmi mia madre tornando alcune ore dopo fu solo una conferma di un’intuizione dolorosa. Non la lasciai finire, come se fosse bastato questo a non rendere reale la sua morte.
Corsi in bagno. Tenetti la testa premuta contro la parete, i pugni stretti e il corpo rigido cercando di comprimere un dolore dilaniante, incontrollabile.
Dopo il funerale non andai mai più a trovarlo al cimitero e non credo lo farò mai.
8 commenti:
grazie per averlo condiviso.
...hai deciso di vederlo da morto , o hai preferito ricordartelo cosi', vivo, magari sulla sua poltrona ?
Marco
anche per me è lo stesso..mia zia...era tutto...non sono mai riuscito ad andare al cimitero...certi dolori restano uguali sempre
Credo che sai meglio di me che l'ultima frase significa che non ti sei lasciato dietro il lutto.
"tenni", non "tenetti"
maestrina fuori luogo in questo post comunque: http://www.italian-verbs.com/verbi-italiani/coniugazione.php?id=11588
anch'io porto dentro me un lutto che non supererò mai finché avrò vita... ti abbraccio forte
io al cimitero ci sono andato... tutto il mese tutti i giorni.. l'agosto più torrido che La Spezia abbia conosciuto, eppure nei sogni compare ancora, poi dopo poco lei e tutto si è raddoppiato...
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