martedì 19 marzo 2013

19 MARZO.



Mia nonna era morta da poco. Mio nonno, rimasto solo, aveva chiesto alla figlia di trasferirsi con il marito e me, appena nato, in quella casa dove lui era rimasto l’unico ad abitare e la cosa era sembrata ai miei estremamente conveniente.
L’affitto era irrisorio, la zona ben collegata, e mio nonno, all’occorrenza, mi avrebbe potuto fare da baby sitter. I contro erano la loro limitata privacy, che per una coppia appena sposata è sempre piuttosto frustrante, e il fatto che avendo solo 3 camere, tolta quella da pranzo e quella in cui dormiva mio nonno, non restava che condividere la loro stanza da letto con me.  Dio solo sa se non sono stato testimone, ancora abbastanza piccolo da esserne inconsapevole, del sesso che i miei comunque immagino facessero, in silenzio (e senza particolari acrobazie) per non svegliarmi e procurarmi chissà che traumi edipici o peggio, per non svegliare mio nonno che dormiva poco distante e che avrebbe subito, più o meno, lo stesso tipo di trauma vagamente incestuoso.
La mia “camera” nella camera era rappresentata da un box di legno, robusto come la gabbia di un gorilla allo zoo. Il più delle volte però finivo per dormire con i miei, pratica che avrebbe fatto inorridire qualsiasi pediatra e, molti anni dopo, la mia psicologa che provò a imputare anche a quello una mia cerca confusione dei generi sessuali.
Mia madre, tra i due, era quella più nottambula e se mio padre andava a letto piuttosto presto, lei continuava fino a tardi a guardare la televisione e a rassettare la casa. Per questo non appena mio padre si sdraiava a letto, come il protagonista di Papillon, scavalcavo l’alto muro di cinta del mio box e mi piazzavo accanto a lui. Papà è stato un genitore tutto fuorché severo con i figli. Pretendeva molto, è vero, ma un “no” alle nostre richieste (che fosse definitivo e perentorio) non l’ha mai pronunciato. Figuriamoci quindi se al primo genito che a 4 anni gli si rannicchiava accanto nel letto avrebbe mai avuto il coraggio di dire “tornatene nel tuo”.
Le mie gambe si intrecciavano immediatamente alle sue, quasi a volerle fondere insieme e mentre con un braccio mi cingeva, con l’altro faceva roteare nel buoi l’ultima sigaretta della giornata, disegnando una scia luminosa che danzava al ritmo del tema de “Il Padrino” e che mi fischiava nell’orecchio come fosse una ninnananna.
L’erotismo è un istinto che si sviluppa ben dopo quell’età, mi è chiaro, ma il piacere fisico di avvinghiarmi al corpo di mio padre, sentire il tepore della sua pelle, il respiro vigile che mi dava la certezza che fosse ancora sveglio e pronto a difendermi dai mostri che il buio genera nella mente di un ragazzino, sono sensazioni che ho cercato e ritrovato, tanti anni dopo, le prime volte che mi trovavo a dormire con degli uomini. Sensazioni diverse eppure così assimilabili a quelle più ingenue di allora.
Forse è vero che l’uomo che si ama di più nella vita è il proprio padre e che passiamo tutta la nostra esistenza ricercandolo in altri, odiandoli a volte perché troppo simili o restandone altrettanto spesso delusi, esattamente per lo stesso motivo. 

3 commenti:

Rafa ha detto...

Bel post, belle riflessioni.. specialmente nelle ultime righe.
Vorrei tanto poter provare lo stesso per il mio di papà.

Davvero un ottimo lavoro, per certi versi mi sono rivisto nel mio di passato.

BlackHole ha detto...

è bello leggere la tua tenerezza

Sara ha detto...

Che dire.. i tuoi racconti ironici mi fanno scompisciare, ma è con questi che raggiungi davvero il tuo massimo. Bravo, sono commossa.