
L’altra sera vado a vedere “Uomini che odiano le donne”.
Il film dura più di una guerra di media entità tra repubbliche africane quindi l’ho visto a singhiozzi dal momento che sono dovuto andare al bagno almeno 5 volte un po’ perché mi ero appena bevuto un litro di coca cola e una macedonia gigante, un po’ perché vedere quei paesaggi innevati in cui è ambientata la storia mi ha stimolato ancora di più. Non ricordo se fosse durante la terza o quarta pisciata ma, mentre ero in piedi con la faccia la muro, mi metto a considerare quanto sia terribile non poterla fare quando ti scappa e al godimento che provo quando alla fine, per il rotto della cuffia, riesco ad evitare l’imbarazzo di inzupparmi i pantaloni.
Purtroppo questo è il mio unico vero limite fisico: devo fare la pipì spesso e ho la capacità di trattenerla pari a quella di una vecchia di 90 anni.
Qualche mese fa ho raccontato in un post di quella volta in cui, per cercare un bagno, mi sono perso a Granata e i miei amici, dopo ore, non vedendomi tornare, chiamarono la polizia. Ma che dire allora della volta in cui il raptus pisciatorio mi assalì durante una gara di nuoto?
“La piscina è fondamentale per lo sviluppo dei ragazzi”, all’epoca era questo il consiglio che andava più di moda tra i pediatri. “Tra un paio di anni potete portarcelo”. Questa seconda parte della raccomandazione però non fu minimamente presa in considerazione da mio padre che nel frattempo era corso via dallo studio medico con me in braccio per lanciarmi nella prima piscina che gli era capitata a tiro. Quindi a 3 anni sono già in vasca e ne uscirò solo a 15. Se si escludono un paio di anni di pausa, sono la cosa più vicina ad un pesce dopo Ariel, la sirenetta di Andesrsen.
Come tutti gli sport che mi sono stati imposti dai mio padre, e sono davvero tanti, l’ho sempre subito e praticato contro voglia. Oltre alla tortura settimanale degli allenamenti, si doveva aggiungere anche l’umiliazione mensile delle competizioni alle quali arrivavo immancabilmente ultimo o, come capitò una volta, secondo, solo perché doppiato dal vincitore dalla batteria successiva.
Avrò avuto otto anni. Una domenica come altre, in una gara come atre. Per una condivisa forma di masochismo, le competizioni per i più piccoli si devono sempre svolgere all’alba quindi alle 8 tutti i ragazzini che come me subivano la stessa tortura (più per il compiacimento dei genitori che per un loro reale spirito agonistico) sono ammassati accanto alle vasche. Da quel momento veniamo sigillati e nessuno può abbandonare la postazione. La pipì, se la dovevi fare, ci dovevi pensare prima. E io già a quell’ora avevo un vago stimolo.
Sugli spalti che coronano la vasca grande, sono assiepati tutti i parenti con le macchinette fotografiche per immortalare le glorie natatorie dei propri pargoli. Tra questi spicca mio padre che da 30 metri ha il fiato sufficiente per gridarmi consigli su come affrontare la gara e mi mostra come dare le bracciate. Lui, che al mare non si bagna mai oltre le ginocchia e lo stile libero crede sia una corrente letteraria.
Comunque alle 10 ancora non viene chiamata la mia batteria. Io sono lì con una cuffia di gomma calata sulla testa e che mi renderà calvo prima che arrivi a compiere 10 anni, avvolto in un accappatoio bianco e celeste.
La pressione della vescica inizia ad essere pungente.
“Posso andare in bagno?”, chiedo pietosamente al mio istruttore. “No, che adesso devi scendere in acqua”. Prima che quell’”adesso” diventi davvero “adesso”, si sono fatte le 12, 30. Finalmente fanno il mio nome. Mi spoglio e salgo sul blocco di partenza. In realtà a salirci è una figura umanoide tutta ritorta su se stessa come il fusto di un ulivo. Le gambe sono intrecciate per comprimere il mio pisellino ed evitare così di diventare la copia italiana del men che pis di Brucsel. La mia unica speranza è tuffarmi in acqua per liberarmi poi lì del fardello.
Siamo tutti allineati sui cubi numerati e attendiamo che il giudice dia il via. Io sono in preda alle convulsioni. Sudo e tremo. “Dai, soffia in quel cazzo di fischietto!!”.
Partenza!
Mi tuffo e appena mi immergo, inizio a pisciare. È tutta una gran confusione. Sto nuotando e facendo pipì allo stesso tempo. Sento il clamore dei parenti e su tutti la voce di mio padre che mi da il tempo come stesse sulla prua dell’imbarcazione degli Abbagnale. Mentre sono lì che agito braccia e gambe temo che dall’alto si possa però distinguere la scia giallastra che mi perdo dietro. Decido allora di sbattere ancora di più gli arti per far si che la spuma dissolva il più possibile l’orrido liquido. Mi agito così veementemente che sembro avere il motore di un torpediniere al posto delle gambe. E così, non mi rendo neppure conto che sto superando tutti i miei competitori e sono io il più incredulo quando tocco il traguardo per primo. Incredibile! Non era mai successo prima. Mio padre urla ancora più forte e solo perché ho 8 anni, nessuna commissione viene a prelevarmi il sangue per una conferma antidoping visto che credo di aver messo qualche cavolo di record.
Sono frastornato e troppo preoccupato che siano rimate tracce di pipì in vasca per godermi la gloria. Resto ancora qualche secondo attraccato al bordo della vasca. Esausto espello ormai serenamente ancora qualche goccia, poi esco dalla corsia con un espressione appagata e liberatoria che molti però confusero erroneamente per il compiacimento di una vittoria insperata.