
Venerdì si parte per Londra. Dani festeggia un compleanno (segretissimo il numero, un vezzo che dopo i 30 è una civetteria più che giustificabile) generosamente anomalo dal momento che il regalo non siamo stati noi amici a farlo a lui ma il contrario, facendoci trovare qualche settimana fa, nelle nostre cassette di posta elettronica, sia i biglietti dell’aereo che la prenotazione dell’albergo, il che visti i chiari di luna che rischiarano il mio conto in banca non potrà che portarmi ad esserli eternamente grato di tanta munificenza.
Londra è stata la mia prima destinazione straniera visitata in vita mia. Fino ai 18 anni al massimo ero arrivato in Trentino Alto Adige che in effetti visti i nomi dei paesini e l’avversione di quel popolo a spiccicare anche solo una parola in italiano, potrei in effetti annoverarlo tra i miei viaggi all’estero.
La mattina avevo sostenuto la prova orale della maturità affrontata con quella leggerezza di chi dice: “sti cazzi, come va va, tanto stasera partirò per un mese in Inghilterra”. Era uno di quei viaggi studio per imparare la lingua dove solitamente torni che la sola cosa che sai fare è ordinare la lista intera dei tipi di birra con un perfetto accento british.
Atterrai la sera molto tardi, accompagnato da una amica di mia madre che aveva organizzato la trasferta per conto della scuola di lingua. Londra quindi la vidi al buio e in atterraggio dopo di che fui spinto su un’auto scura, incappucciato, scotch sulla bocca e portato a non so quanti chilometri dalla capitale dove sorgeva un campus universitario di quelli che d’estate vengono affittati appunto a studenti terzomondisti con l’illusione di imparare l’inglese.
Sulla soavità dei ricordi adolescenziali se ne scrive più o meno dai tempi di Platone e la cosa che colpisce è l’invariabile melanconia che prende tutti quelli che volgendosi indietro a quel periodo si abbandonano alla nostalgia del tempo dove ogni cosa era per la prima volta. La prima volta totalmente da solo, la prima volta in terra straniera, la prima volta in un gruppo che non conoscevo, la prima volta che avevo un insegnante di inglese bellissimo.
Il primo giorno di lezione entrai in una classe formata a seguito di un test di livello il cui risultato incredibilmente mi poneva tra gli “avanzati”. Considerando come sapevo allora l’inglese credo che quelli del corso base si esprimessero solo a gesti. Ad ogni modo erano tutti ragazzi di Roma, ma quella bene, di Prati, della Flaminia e dell’enclave sorta a sud di Roma: Palocco, una versione capitolina di Beverly Hills dove le ragazze sono tutte biondo miele e magre anche se i genitori vengono dal Ciad (potere dei soldi che evidentemente dopo una generazione cambiano il codice genetico dei neonati).
Se nella prima ora eravamo tutti circospetti, scrutandoci gli uni con gli altri con l’occhio a fessura e dando rapidi movimenti di testa per non essere colti ad indugiare troppo sui rispettivi volti, in capo alla terza eravamo già lì che ci davamo pacche sul culo raccontandoci come fossimo bravi a elencare la formazione della Roma con i rutti (lista che ovviamente ignoravo ammettendo però di aver fatto danza per 6 anni fugando così in un secondo ogni loro sospetto sul perché avessi il ciuffo dei capelli schiarito di 3 tonalità).
Poi arriva lui: Ian. Il suo ingresso fu sottolineato da un coro si sospiri femminili, più il mio, e da un “che bono” appena soffocato da una palocchina dietro di me.
Ian aveva circa 26 anni, tratti spigolosi, occhi di un azzurro tagliente e magro al limite dell’emaciato. Iniziò la lezione senza neppure dire un “ciao” nell’italico idioma ma iniziando a sparare a raffica in quella lingua incomprensibile a tutti (tanto per dire quanto “avanzati” fossimo in quella classe).
Il secondo giorno avevo già inciso nel fusto dell’albero prospicente alla classe un cuore trafitto con i nostri nomi lanciandomi subito dopo in classe per conquistare il primo banco, cosa che nei 5 anni di liceo appena conclusi avevo sempre rifuggito neppure lo avessero costruito con un pezzo del nocciolo fuso di Chernobyl. Ormai noi studenti eravamo già tutti un po’ più sciolti e meno storditi dall’imbarazzo del primo giorno, anche troppo credo dal momento che Francesca e Silvia, nel banco accanto al mio avevano passato l’intera ora presieduta da Ian facendo commenti come se ne sentono fare solo da sedicenni davanti al loro primo film porno. “E’ bonissimo, mamma che Je farei! Se me capita!” (si che erano di Roma nord ma evidentemente l’influenza delle borgate evidentemente avevano superato i limiti naturali del Tevere). E probabilmente avrebbero continuato spingendosi ancora oltre se a un certo punto Ian non avesse detto in un italiano perfetto “Ragazzi volevo lo sapeste: io vivo e insegno inglese a Milano da 5 anni”. Subito dopo sentii il rumore sordo di due lingue cadere a terra recise di netto dai denti delle due compagne che da allora si guardarono bene di fare altri commenti, almeno davanti a lui.
In un mese non feci mai un’assenza, mai un ritardo alle sue lezioni e ci mancava solo che ogni giorno gli facessi trovare una mela lucida sulla cattedra. Ero totalmente invaghito di lui ma all’epoca ancora albergava in me un velato senso di pudore al di la del quale Ian aveva capito benissimo quanto fossi cotto di lui tanto più perché era gay anche lui. Con molta serenità qualche giorno dopo lo raggiunse persino il suo fidanzato italiano, un architetto di Milano, orribile, odioso, insopportabile e assolutamente inadatto a lui, almeno rispetto a me.
Quando il corso finì, noi partimmo tutti per una settimana a Londra prima di rimpatriare, allora mi feci coraggio e gli chiesi l’indirizzo per mandargli una cartolina (no e mail, in quei tempi avevamo appena abbandonato le tavolette d’argilla in favore della pergamena).
Tornato a Roma gli scrissi dichiarando i miei sentimenti con quell’impeto da romanzo epistolare ottocentesco del tutto inadeguato alla situazione. Mi rispose confessandomi di capire ma spiegandomi quanto la cosa fosse impossibile, con l’accondiscendenza e la tenerezza di chi legge una lettera fin troppo goffamente sentimentale scritta da un poco più che ragazzino.
Ci scrivemmo forse ancora un paio di volte poi ci perdemmo di vista. Quando 5 anni fa mi iscrissi a Facebook, per curiosità provai a cercarlo e lo trovai. Dalla foto era molto cambiato. Gli scissi chiedendogli se si ricordava di me e per un attimo l’emozione di allora riaffiorò oltre la cotenna che negli anni inevitabilmente finisce per ricoprire i nostri sentimenti adolescenziali. Mi rispose poco dopo dicendomi che aveva avuto tanti studenti italiani ma che non ricordava esattamente chi fossi ma mi inviò la richiesta d’amicizia che però non accettai mai.