
Adesso non ricordo più bene se nel renching delle torture venga prima o dopo la compressione del cranio in una morsa meccanica ma ad ogni modo vedere un film nelle prime due file di un cinema sono certo rientri tra le prime tre. E comunque una risoluzione dell’ONU dovrebbe averla bandita da tempo. Nonostante ciò, ancora domenica scorsa, attraverso il vetro blindato che trattiene tanto le pallottole quanto le onde sonore costringendoti a improbi tentativi di lettura del labiale, la cassiera propone a me e a Scrappy una “seconda fila. Laterale”. Pure! Insomma, a 40 minuti dall’inizio dello spettacolo, una sala da 500 posti era già tutta piena.
Sono certo che neppure Ferzan Ozpetec s’aspettava questa fiumana di pubblico. Era come sei qualcuno avesse sparso la voce che insieme al biglietto del suo ultimo film, “Le mine vaganti”, avrebbero regalato un lingotto d’oro da 5 chili.
Alla fine però, dopo aver vagato per altri due cinema che invece i biglietti li avevano esauriti del tutto (incredibilmente anche le prime due file), troviamo requie al Giulio Cesare, in una deliziosa quinta fila. Ma sempre laterale.
Se uno dovesse azzeccare la trama del film in funzione del pubblico che assiepa la sala, probabilmente penserebbe ad un film su Padre Pio interpretato da Collin Farrel che ha garantito, non senza suscitare una certa perplessità da parte degli agiografi del frate dai mille miracoli, una scena di nudo frontale. Metà del pubblico è composta da anziane mess’impiegate e da un’altra metà da branchi di omoricchioni ridanciani.
Orbene, il film.
Partiamo col fare una premessa. Il mio senso critico non è particolarmente affinato e non si perde mai in dettagli tecnici. Non sto lì a giudicare se il montaggio incrociato in quel passaggio interrompa o meno il flusso narrativo o se le posate impiegate in realtà sono state prodotte in un decennio posteriore rispetto a quello raccontato nella storia. E’ un po’ come per gli uomini. Dettagli come le unghie mozziate o i calzini corti diventano del tutto marginali rispetto all’avvenenza del soggetto. Allo stesso modo per me un film o mi piace o mi fa cagare.
“Le mine vaganti” è un bel film. Ozpetec finalmente ha aperto una finestra sulla commedia per farci prendere una boccata d’aria dopo la lunga teoria di tragedie seconde solo alla biografia di Liz Teilor. Ci si commuove, per carità, ma non esci chiedendoti se sia maglio farla finita lanciandosi sotto un tram o sottoponendoti alla visione di Mutande Pazze diretto da Roberto D'Agostino.
Forse grazie all’apporto nella sceneggiatura di Ivan Cotroneo, la storia dirotta spesso sulla commedia, quella bella, all’italiana, quando questo termine evocava le sceneggiature di De Sica, il padre, e non quelle da denuncia del Moige interpretate da De Sica, il figlio.
La storia in breve.
Un ragazzo dalle chiappe affamate torna in Puglia dai genitori per dire a tutti non solo che alla passera preferisce il fringuello ma che ha anche velleità artistiche di scrittore. Confessa i suoi intenti la sera prima al fratello maggiore che, vista la mala parata del figliol prodigo, lo frega in volta rivelando a cena la SUA allegrezza di chiappe, conquistando così un’amara libertà ottenuta con il diseredamento familiare e costringendo il secondo genito a tenere segreta la sua condizione perché se a un padre viene un infarto per un figlio frocio, per due va diretto al Creatore.
Il figlioletto, interpretato da Scamorcia (che alla fine non è manco male ma a me mi fa il sesso di un caciocavallo appeso), tenta di prendere le redini dell’azienda di famiglia inizialmente promessa a quel furbo (e bono, lui sì e pure parecchio) di Alessandro Preziosi ma finirà per confessare ai genitori che in realtà del pastificio di famiglia gli interessa più o meno come un fine settimana su un isola deserta con la Bellucci e che lui a Roma vuole tornare per fare l’artista (e sono tutti capaci a farlo quando hai i pippi di papà che ti mantengono, ma queste sono considerazioni mie dettate da pura invidia).
Nel mezzo, tanti personaggi, tutti ben scritti e ben interpretati. Forse un po’ cliscé, forse un po’ macchietta, ma gradevolissimi. Dalla zia alcolizzata che vive di rimpianti, a una nonna che sa tutto e vede tutto, che mal sopporto il macismo di suo figlio che ottusamente lo ha portato a rinnegare il nipote in nome di un’onta ben comprensibile a noi italiani. La vecchia però paga tanta saggezza e una vita passata a soffocare il suo amore per un cognato fatto della stessa pasta dei nipoti (conferma della tesi frociogenetica) schiattando suicida dopo una goduriosa abbuffata di dolci che le procura un’overdose insulinica (sì, anche stavolta infatti Ferzan non ce la fa e, nonostante la leggerezza che pervade buona parte del film, il morto ce lo deve far scappare, per cui proporrei di ribattezzarlo Gessica Ozperec o Ferzan Fleccer, a gusto vostro).
Ma veniamo ora al punto focale, alla vexata questio, che rimpiazzerà per anni la secolare disputa sul conflitto d’interessi di Berlusconi e il vero sesso di Amanada Liar: la rappresentazione dei ghei nel film.
A un certo punto infatti, siccome 2 fratelli omoricchioni non bastavano, arrivano a dare brio alla storia un gruppo di amici romani di Scamoscia, tra i quali il compagno di quest’ultimo (uno di questi è interpretato da Pecci, che dio lo benedica e poi me lo mandi a casa).
In effetti, il teatrino di loro che si censurano e si controllano per soffocare l’odalisca che alberga nei loro animi è un topos assai visto (persino in Priscilla c’è la travestita che tenta un inutile contegno) ma a me non importa e del resto non è detto che la ricerca dell’originalità abbia un valore artistico assoluto. Questo manipolo di invertiti, cantano i classici della musica frocia mentre fanno la doccia. Fanno coreografie in mare. Riconoscono al volo la stilista dell’abito indossato dalla Grimaudo (di una bellezza che lascia disorientato anche me facendomi affiorare orrendi pensieri tribadici). Tutte cose che faccio, faccio e faccio. Certo non che io sia l’ago della bilancia sul quale tarare il variegato universo ghei, ma ho trovato questi personaggi veri, credibili, simpatici (anche al pubblico delle babbione) e non caricaturali, con buona pace dei ghei che non si sentono rappresentati perché “loro tutte queste cose non le fanno”: peggio per loro perché si divertono molto di meno.
Quindi, con lo sforzo che fa ogni volta un frocio di riconoscere il valore dell’opera di un altro gahei, ribadisco il fatto che “Le mine vaganti” è un bel film, certo con qualche claudicanza, ma assolutamente piacevole, dove finalmente i gay non vengono uccisi a colpi di fucile, non cadono in un fosso, né vengono sbranati dai lupi ma vivono la loro vita “normalmente”, anche quando la loro normalità è fare con gli amici le sincronet nelle limpide acque di Gallipoli.
PS: un consiglio. Causa continui movimenti di macchina stile “giro, giro tondo quanto è bello il mondo”, vi consiglio di andare a stomaco vuoto e di non fare come me che dopo un pacchetto di noccioline glassate ho rischiato di vomitare sulla testa dell’ottuagenaria seduta davanti.