lunedì 2 aprile 2012
IL VESTITO DI PASQUA.
In prossimità della Pasqua mia madre portava me e mio fratello a comprare i vestiti per la festa. Io appartengo a quella generazione per la quale l'acquisto di un abito non era frutto di una pulsione nevrotica ma veniva motivato e cadenzato dagli eventi ciclici (le festività) o straordinari (matrimoni, battesimi e altre cerimonie) che si susseguivano durante l’anno.
Luisa era la proprietaria di un negozio per bambini nei pressi del mercato di Villa Gordiani. Era uno di quei negozi di sostanza dove le vetrine neppure c’erano e la eco veniva attutita dalla mole abnorme di vestiti accalcati sugli espositori e dalle pile torreggianti di scatole contenenti mutande, calzini, nastri per capelli e ogni altro tipo di accessorio per un pubblico 0-12 che la manifatturiera italiana aveva prodotto negli ultimi 20 anni. Potevi trovare di tutto, dai costumi di carnevale agli abiti consoni per un funerale, così, tutti insieme, senza alcuna turnazione stagionale sparpagliati qua e la secondo un ordine caotico chiaro solo alla proprietaria e alle sue 2 commesse.
“Stavo cercando una camicetta in fresco lino, con dei ricami a fiori sul colletto e i bottoni in madreperla". Non importava quanto la richiesta fosse specifica e speciosa, Luisa partiva come un cane al quale si fosse fatto fiutare l’indumento di uno scomparso e nel giro di 2 minuti tornava esattamente con quello che la cliente cercava.
Ogni anno quindi, nella settimana precedente la Pasqua, io e mio fratello venivamo portati da Luisa, nota anche come “Omini di Ferro” (il negozio non aveva neppure un nome ma per convenzione aveva preso quello di quella fabbrica di confezioni per bambini che credo ormai non esista più) per comprarci i vestiti da indossare la domenica di resurrezione e che avremmo indossato poi per tutta la stagione primavera-estate in occasione di qualsiasi evento che richiedesse un minimo di eleganza. Mai che abbia potuto esprimere un giudizio sulle scelte di stile di mia madre un po’ perché tutto avevo all’epoca meno che gusto nel vestire (a differenza di quello per gli uomini, questo si è affinato con la maturità) un po’ perché mi sembrava che tutto ciò che mi mettevano addosso fosse bello, per la grazia che sembrano avere tutte le cose nuove e perché le commesse in coro mi guardavano dicendo “sembra fatto apposta per lui” (mentendo come è ovvio che facciano tutti i commercianti quando devono piazzare la loro merce).
Scelti i vestiti, Luisa segnava l’importo sul taccuino dei clienti abituali i quali avevano il privilegio di rateizzare un po' alla volta ma che per questo, non potendo emettere lo scontrino, subivano la mortificazione di essere caricati in un bustone grigio e anonimo che non avrebbe mai attirato l’attenzione di eventuali controlli della finanza.
La tortura peggior per un bambino è comprargli un abito nuovo e imporgli però di aspettare per poterlo indossare e benché mancassero pochi giorni alla data fatidica per me sembravano sempre un tempo siderale. A questa restrizione però venivano applicate delle clausole benevole che mi permettevano di indossare il vestito in casa ma a patto di:
non rimuovere le etichette che, come sigilli papali potevano essere staccate solo la mattina di Pasqua;
tenermi alla larga da ogni fonte di sporco;
non sgualcirlo, costringendomi così a deambulare per casa con la rigidità di una statua di pietra.
E poi arrivava il gran giorno. Mi alzavo all’alba, prima di tutti e mi precipitavo in sala da pranzo per sollevare il celophan che proteggeva il mio vestito. Andavo in cucina, prendevo le forbici e tagliavo via i sacri sigilli. Mi lavavo, mi aspergevo con un po’ di profumo di mio padre, mi pettinavo facendomi la riga da una parte e poi indossavo il vestito, con tutta la cura di cui ero capace come se quegli indumenti fossero stati confezionati con carta velina. Poi mi rimirarmi nella specchiera a figura intera che avevamo nella stanza di mio nonno e non potevo che convincermi che fossi io il bambino più bello del mondo, pronto ad uscire per raccogliere i consensi di amici e parenti sopraffatti dalla mia eleganza.
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5 commenti:
Foto foto, Ale bisogna vedere la foto con addosso i vestitini di "Omini di Ferro" da Luisa.
Che bei ricordi, io non ero quasi mai soddisfatto dei vestiti nuovi, manco volevo provarmeli e ovviamente nn mi piacevano. Sarà che mia madre lavorava in un negozio di abbigliamento in centro, e aveva anche i ganci giusti per reperire ogni cosa. A me non stava mai bene niente e nn mi piaceva niente (mica sn cambiato negli anni, sono una vera rogna!).
Nel quartiere dv abitavo esisteva e credo esista tuttora, un negozio simile, chiamato baby style una sorta di merceria dall'arancione insegna che tutti han sempre letto e chiamato babi stile e con cose a dir poco tremende :D Passavi alle 15 e trovavi dentro tre clienti, ripassavi alle 18 e c'erano sempre quelle tre clienti + altre due. La titolare attaccava delle pezze stratosferiche.
Mi hai catapultato indietro nel tempo con questo bel ricordo.
Grazie
Ehi ma nn andavate tutti assieme alla Messa di Pasqua?
Mi sembra che la tua sia una famiglia molto molto unita.
A presto
Alex Fe
lo eravamo...
Mi sono riavvicinato al tuo sito con un certo timore (e non senza difficoltà, vai a ricordarti se era trsp o tprs o bim bum bam e, colpevolmente, non ho pensato a digitare Insy Loan) e con la paura di non ritrovarlo. SOno contento per l'infondtezza delle mie paure e scopro con piacere del libro, avrò di che leggere :)
Ale,
potete esserlo ancora! Sforzati un pochinino :)
io... bha non attacco suole inutili
Ciao
AlexFe
:*
Spero di leggere presto un altro libro scritto da te, sei davvero bravo. Spero di poterti conoscere un giorno per ringraziarti di persona per la serenità e malinconia che provo leggendoti. E pensare che in foto sembri così tutto petto e bicipiti...
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