
La prima volta fu per lo stress. E mi colse davvero di sorpresa perché fino ad allora, non mi era mai capitato di svenire.
Eravamo partiti praticamente all’alba. Avevo preso la Croma di mio padre. Una delle 30 ancora in circolazione. La destinazione era Napoli per partecipare al ghei praid nazionale. Contemporaneamente era anche il primo viaggio con quello che sarebbe poi stato il mio fidanzato per circa sette anni. All’epoca molte delle sue idiosincrasie come ad esempio dimenticarsi completamente delle persone un quarto d’ora averle salutate, mi erano ancora oscure (iniziai ad averne le prime avvisaglie la settima successiva quando, rincontrando Edo, un amico che aveva fatto in macchina con noi il viaggio d’andata, il corteo e il viaggio di ritorno per un tempo complessivo di giorni 2, andò verso di lui tendendo la mano e presentandosi).
Io non ho mai amato particolarmente la guida in autostrada e quella specie di trattore non era quel che definiresti un mezzo scattante e maneggevole tanto più se si considera un’incrinatura dell’avantreno causato dal mio schianto contro un gardreil l’estate precedente e mai riparata dato che mio padre aveva preferito imparare a convivere con la conseguente tendenza dello sterzo ad andare a sinistra piuttosto che portare l’auto ad aggiustare. Sarebbe costato troppo.
In macchina eravamo in 5 e a parte Roberto che in 30 anni di vita non aveva mai avuto tempo di prendere la patente, nessuno degli altri si sentì in dovere di chiedermi se volessi un cambio il che si tradusse in 4 ore di guida, al netto delle soste.
In quel periodo avevo l’obbi dell’anoressia, mi ero quindi imposto un bagget di millecento calorie, a settimana, e almeno 2 ore di aerobica al giorno. Il tutto mi aveva permesso in breve tempo di ottenere quell’aspetto che una madre preoccupata e medici attenti avrebbero definito: emaciato, aggettivo che allora suonava alle mie orecchie come uno sprone a perseverare. Quindi durante le soste, mentre gli altri si strafogavano di cornetti, cappuccini e buste di tarallini, io mi limitavo a seguire una dieta a base di acqua ed aspartame.
Come molto sapranno il praid si svolge verso giugno.
Come è altresì noto, più si va a sud, più le temperature si fanno alte. A Napoli in quei giorni faceva ben più di quello che comunemente potremmo definire “caldo” e mio padre avendo sempre associato il concetto di opscional all’impennarsi del prezzo d’acquisto della medesima, aveva evitato accuratamente di far montare aria condizionata e stereo. Quest’ultimo lusso, venne egregiamente sostituito durante il viaggio da Edo, che per tutto il tempo ci aveva deliziato con una personale riedizione dei pezzi migliori di San Remo, dai tempi della prima edizione con Nilla Pizzi.
Arrivati a Napoli mi era chiaro che non sarei sopravvissuto anche al viaggio di ritorno. Il sole bruciava come in un western di Sergio Leone e anche i miei pensieri erano sudati. La sola cosa positiva era che Edo, in modalità “a piedi” smetteva di cantare.
In tutto questo dovevo anche mostrarmi un minimo entusiasta della presenza del mio ragazzo ma le calorie della bottiglietta d’acqua bevuta a Caserta le avevo tutte consumate nella manovra di parcheggio dell’Achille Lauro e le forze non mi permettevano di abbozzare più che un anemico sorriso.
Il corteo si svolse durante quel lasso di ore durante le quali solitamente in estate tutti i telegiornali ci consigliano di restare in casa, a persiane chiuse. Noi invece eravamo incolonnati in una fiumana festante, loro, che attraversava la città mentre, io, li seguivo con sporadici sprazzi d’entusiasmo.
I programmi serali sarebbero consistiti in una doccia volante a casa di amici, una pizza e poi tutti a ballare in un parco dove l’organizzazione aveva allestito quella che doveva essere la festa ufficiale del pride. Il mio programma però si concluse subito dopo cena.
Arrivati in pizzeria infatti il mio istinto di conservazione ebbe il sopravvento. E nonostante la volontà di comprare dei pantaloni di una taglia di meno, mi avventai sul vassoio di fritti che i camerieri ci avevano portati come antipasto. Come una pianta al limite dell’essiccazione a cui viene inumidita la terrà, iniziai a sentire affluire energia nei muscoli e soprattutto nella lingua cosicché per un po’ fui anche di discreta compagnia.
A fine cena ci alzammo per raggiungere la festa. Credo fu lo scioc del mio organismo che d’improvviso s’era emozionato per aver ricevuto tanto cibo. Fatto sta che iniziarono a fischiarmi le orecchie, la vista mi si appannò e pian piano il brusio intorno a me venne avvolto da una nuvola di bambagia. Le gambe iniziarono a sgonfiarsi ma, prima che mi abbandonassi all’oblio, il mio fortissimo senso del decoro mi fece rivolgere ad amici e fidanzato: “per cortesia potete tenermi le chiavi della macchina e il portafogli? Credo di stare per svenire”. E tracollai tra le frasche di un’aiuola accanto alla pizzeria seppur con una certa grazia. Rimasi lì in uno stato di semi incoscienza per qualche secondo, privo di soccorso, fino a quando non li sentii dire: “ma che è svenuto davvero?”.
Mi ripresi poco dopo, disteso, con il viso fradicio d’acqua e le gambe in alto tenute dal mio ragazzo del quale distinguevo un’espressione preoccupata, o così mi sembrava nella penombra.
“Poi dite che non ho ragione quando dico che mangiare fa male?!”. Ero tornato in me. Edo aveva una bottiglia di minerale tra le mani e minacciava di innaffiarmi di nuovo il viso, ma lo tranquillizzai.
La festa chiaramente saltò, almeno per me. L’indomani a colazione rassicurai tutti quanti che il malore non era dovuto a droghe ma solo ad abuso di carboidrati e dopo essermi fatto raccontare i fasti della festa mancata, ripartimmo.
Edo si propose pietosamente di guidare e scoprii fortunatamente che anche in modalità “al volante” ci saremmo risparmiati le sue riedizioni a cappella di “Pensami per te” della Oxa e “Perdere l’amore” di Ranieri.